Nel suo editoriale su D di Repubblica del 21 dicembre, Elena Cattaneo racconta il convegno tenuto all’Università Statale di Milano il 27 novembre per presentare lo stato dell’arte delle sperimentazioni sulla malattia di Parkinson con cellule staminali embrionali umane, durante il quale ha preso la parola, con un intervento suggestivo e commovente, anche uno degli 8 pazienti protagonisti della sperimentazione europea.
Ecco l’articolo della senatrice Cattaneo.
“Il 27 novembre scorso, all’Università degli Studi di Milano, i colleghi scienziati e clinici delle Università di Lund, di Cambridge e del Memorial Sloan Kettering Institute di New York hanno presentato le due uniche sperimentazioni cliniche al mondo, in corso in Europa e negli Stati Uniti, di trapianto di neuroni ottenuti a partire da cellule staminali embrionali umane nel cervello di persone affette dalla malattia di Parkinson. La sperimentazione europea trova le sue fondamenta nel lavoro di ricerca di base condotto, dal 2008 ad oggi, nell’ambito di tre consorzi di ricerca europei coordinati dal nostro laboratorio della Statale. Sedici anni di ricerca durante i quali si è passati dall’idea del trapianto cellulare, a cui il neuroscienziato svedese Anders Björklund dedica i suoi studi da quasi 50 anni, allo sviluppo di protocolli per “trasformare” le staminali embrionali in neuroni simili a quelli che degenerano nella malattia di Parkinson, dalla necessaria dimostrazione della loro sicurezza in modelli animali, alle autorizzazioni da parte delle agenzie regolatorie. Il primo degli otto trapianti della sperimentazione europea risale a febbraio 2023, l’ultimo a ottobre di quest’anno.
Oltre ai rilevanti aspetti scientifici, l’incontro di Milano ha mostrato come gli stessi pazienti possano essere protagonisti dei passi avanti della ricerca. Dell‘intera giornata, infatti, il momento che credo rimarrà indelebile nella memoria di tutti è stato il dialogo profondo ed emozionante tra Andrew Cassy, 58 anni, malato di Parkinson, “paziente numero 8”, come si è definito, che sei settimane prima si era sottoposto al trapianto sperimentale di quei neuroni, e il neurologo e neuroscienziato di Cambridge, Roger Barker, che segue i pazienti coinvolti nella sperimentazione europea.
Del racconto di Cassy, che è intervenuto indossando un “cappello cerebrale” che replica le circonvoluzioni del cervello, mi hanno colpita alcune parole-simbolo della sua testimonianza. La prima è “paura”, conseguente alla diagnosi ricevuta 14 anni fa dopo aver osservato i primi tremori della mano destra. La seconda è “privilegio”, quello di essere stato selezionato per la sperimentazione fra migliaia di pazienti, in base a specifici dati clinici. La terza parola è “fiducia” nella scienza, che ha aperto questa possibilità, e nei medici – primo fra tutti Barker, che gli sedeva di fronte – che gli hanno spiegato i rischi e i possibili benefici. L’ultima – per me inaspettata – è stata “responsabilità” per queste “cellule nuove” ora integrate nel suo cervello con un’operazione durata diverse ore. Responsabilità, ha spiegato, che deriva dalla consapevolezza di contribuire, come persona unica nella sua individualità ma paradigma di milioni di malati, a trovare la risposta alla domanda più importante: può questo trattamento (o le sue varianti future) combattere il Parkinson?
Nei giorni successivi al convegno, ho ricevuto lettere di pazienti che comprensibilmente si rendevano disponibili a partecipare a eventuali nuove fasi della sperimentazione europea e americana, mossi dalla speranza di un beneficio (per quanto ancora non provato) ma spesso ignari del fatto che, oltre all’oggettiva impossibilità di accedere a sperimentazioni in altri paesi, essere tra i primi a sperimentare una terapia comporta anche rischi. Non solo di non guarire o non migliorare, ma anche, in potenza, di peggiorare.
Per scongiurare questi scenari di pericolo, scienziati, clinici e agenzie regolatorie si muovono lungo due direttrici etiche e deontologiche. La prima è ipotizzare ogni sorta di effetti negativi, studiando come minimizzarli. Il secondo è rappresentato dagli innumerevoli “non ancora”, “ci vorrà del tempo” che si è costretti a dire per permettere alla sperimentazione clinica di fare il suo corso.
Dopo tanti anni di attività di ricerca a contatto con malati, familiari e caregiver, credo sempre di più nella necessità di dare loro spazio e ascolto. Perché, se c’è tanto da scoprire stando al bancone di laboratorio, c’è altrettanto da imparare dalle persone che aspettano non solo cure e speranze, ma vogliono anche potersi rendere utili, avere un ruolo nell’alimentare ogni via razionale verso possibili orizzonti di cura. Un rifiuto di quella passività che, paradossalmente, tante volte ho visto essere la regola del nostro Parlamento. Proprio l’istituzione democratica per eccellenza che, facendo tesoro della realtà delle cose, dovrebbe assumere decisioni per il benessere e la salute dei cittadini resta invece immobile su temi di frontiera come la derivazione delle cellule staminali embrionali umane per la ricerca, mantenendola vietata da vent’anni, nonostante la palese falsità scientifica del definire, nei primi anni 2000, queste cellule “inutili”.”
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