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Ogm e dissonanza cognitiva – Dal Foglio del 2 giugno 2023

In un ampio editoriale sull’inserto del Foglio di venerdì 2 giugno, la senatrice Cattaneo, nel felicitarsi dell’apertura parlamentare alle nuove biotecnologie vegetali grazie a un emendamento approvato in Senato al dl Siccità, nota come la storia della ricerca su queste ultime non possa essere completa senza ricordare il ruolo chiave degli Ogm.

Ecco l’articolo della senatrice Cattaneo:

“Politiche agroalimentari basate sull’ideologia sono un lusso che nemmeno nella nostra sazia e ricca Europa possiamo più permetterci. Gli sconvolgimenti climatici e geopolitici degli ultimi anni stanno rendendo palese, anche ai più riluttanti, la necessità di utilizzare l’innovazione e tutti i suoi mezzi scientifici e tecnologici per poter continuare a garantire la sostenibilità (sociale, ambientale ed economica), la libertà e la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari e non solo.

Anche in Parlamento, sul fronte delle biotecnologie vegetali, qualcosa sembra muoversi per liberare la ricerca, dopo decenni di blocco politico. Nel decreto legge “Siccità” approvato mercoledì 31 maggio, infatti, vi sono anche “misure urgenti” per sbloccare la sperimentazione dell’editing genomico in ambito agrario, a sostegno di produzioni vegetali “in grado di rispondere in maniera adeguata a scarsità idrica e in presenza di stress ambientali e biotici di particolare intensità”. In particolare, l’emendamento a prima firma De Carlo (Fdi), sottoscritto anche da senatori della Lega, Italia viva e Movimento 5 Stelle, ed analogo a un altro a firma Paroli (Fi), consente l’emissione controllata nell’ambiente, a scopi scientifici e sperimentali, di organismi prodotti mediante tecniche genomiche quali la cisgenesi e la mutagenesi sito-diretta. Essendo stato approvato in fase di conversione di un decreto in scadenza il 13 giugno, dovrebbe diventare legge in tempi pressoché certi.

“Eppur si muove”?
È naturale che uno studioso italiano provi soddisfazione e sollievo nel veder riaprire le porte a un ambito di ricerca prima bloccato. Eppure, questa soddisfazione non può essere piena, sapendo che il dibattito sulle biotecnologie vegetali rimane parziale e mutilato. Come uno stanco e disilluso Galileo Galilei, verrebbe da commentare “eppur si muove”, nel constatare che questa importante ma tardiva considerazione politica della scienza nel nostro Paese deve fare i conti con una sorta di abiura. Dalle dichiarazioni che si leggono e si ascoltano, infatti, appare impossibile parlare delle nuove tecnologie di miglioramento genetico ora finalmente in discussione senza “abiurare” un passato di ricerca sugli Ogm del quale, in realtà, dal punto di vista scientifico, non ci sarebbe nulla da rinnegare o da temere. Nessun Ogm autorizzato per la commercializzazione, in decenni di utilizzo per la nutrizione umana e animale, ha infatti mai causato danni sanitari o ambientali nel mondo.

Le tecnologie Ogm inseriscono nel genoma della pianta un pezzettino di DNA “protettivo” esterno, proveniente da un’altra pianta o specie (ad esempio un batterio), in grado di renderle “resistenti”. Invece, altre più recenti biotecnologie vegetali non aggiungono nulla di esterno, ma agiscono sul DNA della pianta stessa modificando chirurgicamente “solo” una o due lettere del suo genoma interno (composto da miliardi di lettere) in corrispondenza di tratti che esprimono la caratteristica che si vuole rafforzare o eliminare. Si parla in questo caso di “editing” genomico o anche di TEA, Tecniche di evoluzione assistita, messe a punto tramite la tecnologia Crispr/CAS9 che ha fatto conquistare il Nobel alle sue scopritrici. Interventi spesso impossibili da distinguere rispetto ad analoghe variazioni di una o due lettere che avvengono spontaneamente in natura, o dopo incroci e innesti: il vantaggio straordinario, introducendole in laboratorio, è quello di poterle tracciare, controllare e verificare in ogni passaggio, con gli effetti misurabili nel breve termine.

Va tuttavia ricordato che le nuove biotecnologie non esisterebbero senza tutta la ricerca sugli Ogm che c’è stata in precedenza, come non esisterebbe il Gps di oggi senza le missioni spaziali degli anni ’60, come non sarebbe esistita la Ferrari senza la Ford modello T, come non esisterebbe il Frecciarossa senza le prime locomotive a vapore. Anzi, a differenza dell’invenzione di Stephenson, molti Ogm sono tuttora utilizzati e coltivati con successo in tutto il mondo, permettendo di risparmiare migliaia di tonnellate di agrofarmaci, milioni di litri di carburante per i macchinari agricoli, milioni di tonnellate di emissioni di CO2.

Vietare gli OGM fa male alla salute (mentale)
Gli Ogm autorizzati (cioè certificati come non dannosi per uomo e ambiente) che da decenni vietiamo ai nostri imprenditori di coltivare sono gli stessi che facciamo produrre per noi dagli imprenditori di altre nazioni per poi consumarli indirettamente sulle nostre tavole (senza alcun danno alla salute), dopo che navi provenienti dall’estero ne scaricano ogni giorno qualche migliaio di tonnellate nei nostri porti, al costo di qualche miliardo l’anno perso dagli agricoltori italiani e guadagnato da quelli di altri Paesi. Non riconoscerlo causa una dissonanza cognitiva collettiva che nuoce alla società italiana sotto ogni aspetto.

Gli imprenditori stranieri, infatti, coltivano – e commerciano, anche in Italia – quel mais geneticamente migliorato (con il gene “Bt” che lo protegge dall’attacco della piralide, riducendo fortemente l’uso di antiparassitari) che agli imprenditori italiani è vietato coltivare e vendere, ma è permesso acquistare dall’estero per farne mangimi, farine e quant’altro. Gli imprenditori stranieri coltivano – e commerciano, anche in Italia – quel cotone geneticamente modificato che ha meno bisogno di essere irrorato di pesticidi per sopravvivere. Tutte le prove disponibili confermano che le piante citate (e altre) non sono diverse, quanto a effetti su salute e ambiente, rispetto alle loro omologhe non geneticamente modificate. Con il vantaggio che le piante Ogm possono avere caratteristiche migliori, in quanto spesso studiate per ridurre, rispetto alle varietà non-Ogm, l’uso degli agrofarmaci, i cui costi gravano, oltre che sull’ambiente, anche sulle tasche dei coltivatori e, di conseguenza, dei consumatori finali. Nel racconto mediatico dello spreco alimentare e della sostenibilità, non si tiene conto a sufficienza di quanto si impatti inutilmente sull’ambiente nel coltivare un campo e vedere poi il raccolto andare perduto a causa di fitopatie o attacchi di parassiti che potrebbero essere prevenuti, grazie a tecnologie già oggi disponibili e consolidate nel mondo, ma vietate per motivi ideologici. Per alcune di queste, ad esempio il mais, non sarebbe necessaria la nuova tecnologia dell’editing. La “pianta ideale”, ad oggi, c’è già da 30 anni. Se i nostri imprenditori fossero messi in condizione di competere alla pari con i loro omologhi di altri Paesi, magari grazie a una “moratoria” temporanea al divieto di coltivazione di mais Ogm, l’intera economia italiana potrebbe averne beneficio, soprattutto in un periodo di potenziale insicurezza alimentare.

Eppure, il terrore instillato a suo tempo nei cittadini italiani verso gli Ogm, a opera di “cattivi maestri” che hanno diffuso bufale antiscientifiche, è ancora troppo forte per poterli anche solo nominare senza causare reazioni scomposte. In altre parole, a livello di coscienza collettiva degli errori commessi, in Italia non si muove proprio nulla.

Il danno cognitivo di oltre vent’anni di narrazione terroristica, diffusa e alimentata nella società anche da operatori economici e mediatici, appare difficilmente riparabile. Ricordiamo tutti la campagna pubblicitaria della Coop su pericoli inesistenti come la “fragola-pesce”, o i casi di “morti sospette” legate agli Ogm, completamente inventati, citati da Beppe Grillo nei suoi show dei primi anni Duemila. Il marketing della paura, nel breve termine, è redditizio per chi lo pratica, ma a lungo andare danneggia tutti noi.

In più occasioni, nella discussione pubblica e politica sulle possibili soluzioni della crisi alimentare che attanaglia il mondo, si è finito con il mettere sullo stesso piano i dati riportati da studiosi esperti della materia e le narrazioni secondo cui il pianeta si può sfamare coltivando i campi con metodi antiscientifici, fino all’esoterismo del cornoletame biodinamico. Ricordo, tra i moltissimi altri, l’ex ministro dell’Agricoltura e oggi vicedirettore FAO Maurizio Martina che auspicava corsi di biodinamica nelle università e faceva l’impossibile promessa di una “Italia senza pesticidi entro il 2025”. Molte delle scelte compiute dando ascolto a queste narrazioni, di fatto, hanno privato gli imprenditori agricoli e gli studiosi degli strumenti minimi per salvaguardare la nostra produzione agricola e le tipicità, danneggiando l’economia, la ricerca, la libertà d’impresa e rischiando di causare ancora più danni in futuro e renderci ancora più dipendenti dall’estero.

Come uscire da vent’anni di blocco della ricerca scientifica
Nella galleria degli orrori degli effetti di questa chiusura sulla ricerca pubblica del Paese, ancora una volta, voglio ricordare (tra le tante) le vicende di tre colleghi. Penso al professor Silviero Sansavini, le cui mele cisgeniche, resistenti alla ticchiolatura (un fungo responsabile della più grave malattia di questo frutto) nel 2002 non poterono essere sperimentate in campo aperto, con l’unico esito di regalare a Olanda e Svizzera lo sviluppo di questa linea di ricerca. O al professor Eddo Rugini, meritoriamente ricordato da questo giornale, che nel 2012 è stato obbligato a mettere letteralmente al rogo trent’anni di conoscenza: bruciate le sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere a parassiti, al freddo o alla siccità. Mai nessun pesticida era entrato in quel campo sperimentale dell’Università della Tuscia prima della distruzione: le sue piante Ogm non ne avevano bisogno. Quelle innovazioni sono state regalate ad altri Paesi, dove gli agricoltori hanno potuto coltivarle e vedere i propri raccolti prosperare, a differenza dei loro colleghi italiani che hanno visto la produzione di frutta diminuire anche dell’80% a causa della maculatura del pero o del virus Sharka. Infine voglio ricordare il prof. Francesco Sala (genetista nella mia Università, la Statale di Milano), scomparso troppo presto, e i suoi pioppi geneticamente modificati che non ha mai potuto sperimentare in Italia: oggi si coltivano in Cina, su centinaia di migliaia di ettari, e arricchiscono gli imprenditori cinesi anziché quelli italiani.

Per comprendere ancora meglio l’assurdità delle politiche condotte fino ad oggi, ricordo che, tra i progetti chiusi nei cassetti delle nostre università, ci sono varietà di olivo, vite, pomodoro, frumento, fragola, kiwi, riso, susine modificate per renderle più produttive, meno bisognose d’acqua, resistenti ad agenti atmosferici, funghi e altri patogeni vegetali. Alcune sono Ogm, altre sono frutto di tecnologie di editing genetico. Ad oggi sono tutte bloccate; con la nuova legge apriremmo solo quei cassetti dove non c’è l’etichetta “Ogm”. Ragioni scientifiche per operare questo discrimine? Nessuna. Ragioni politiche e giuridiche? Una sola: l’incapacità di uscire dalla narrazione terroristica propugnata da decenni sugli Ogm, sorretta da un’impalcatura giuridica europea a maglie strette che considera – come confermato dalla Corte di giustizia dell’Unione – ogni modifica genetica allo stesso modo, lasciando agli Stati membri l’onere di decidere se le vogliono tutte oppure nessuna.

La soluzione, culturalmente ipocrita, di cambiare il nome alle cose pur di non eliminare un divieto è l’unica che oggi vanti un sostegno trasversale e maggioritario a livello parlamentare. Questo è lo scotto da pagare affinché la ricerca biotecnologica in ambito agrario possa trovare nuova linfa nel nostro Paese che, insieme ad altri, mena il tristo (e finto) vanto di essere “Ogm free”. Ma dire che gli Ogm oggi non servano più poiché si sono sviluppate altre biotecnologie, dire che “ormai siamo oltre”, è una forzatura: continueremo a importare mais, cotone, soia Ogm dall’estero a migliaia di tonnellate e a lasciarli sperimentare alle università e agli imprenditori stranieri, pur di non ammettere l’errore originario compiuto nel vietarne non solo la coltivazione a scopi commerciali, ma anche lo studio in campo aperto.

Risalire, in corsa, sul treno dell’innovazione
Oggi, chiudendoci all’innovazione, rischiamo di assomigliare a quegli abitanti del Far West americano che, vedendo avanzare le prime locomotive a vapore, rifiutavano di salire sui treni, terrorizzati che viaggiare a una velocità di 80 chilometri orari potesse essere fatale, soprattutto per le donne, facendo sì che l’utero schizzasse fuori dal corpo. Qualche centinaio di anni dopo, la questione Ogm dimostra che il “panico morale” (termine usato da alcuni antropologi come Genevieve Bell) che una società vive quando tecnologie particolarmente rilevanti si mostrano al mondo per la prima volta rimane difficile da contrastare se non ci si arma di metodo, di prove, di studio e di ragionamenti che aiutino a mettere in fuga le paure e il rischio del rifiuto generalizzato del nuovo da parte della società. Perché a causare i problemi più grandi alla società in termini di “treni persi”, più che un divieto in sé, è l’ideologia di paura e chiusura che lo costruisce e lo accompagna. E, in questo senso, la questione Ogm rappresenta un fallimento da tutti i punti di vista: normativo, politico, economico, mediatico e culturale.

Accontentiamoci quindi, per ora, di salutare l’apertura parlamentare alle nuove tecnologie sull’editing genomico per ciò che è: un’utile scappatoia per riaccendere la conoscenza in un settore nel quale, prima di un blocco scientificamente immotivato, i ricercatori italiani erano tanti, all’avanguardia e tra i migliori. Per quanto riguarda il futuro, sarebbe un cambio di paradigma enorme, da parte di un legislatore consapevole, evitare chiusure a priori dettate da un malinteso principio di precauzione e permettere invece, fin dall’inizio, lo studio e la sperimentazione delle nuove tecnologie che il mondo scientifico continuerà a mettere “nel piatto”. Come la carne coltivata.

A questo link è possibile consultare e scaricare l’articolo in formato PDF.