Su D di Repubblica di sabato 9 marzo, Elena Cattaneo cita gli studi della sociologa Camilla Gaiaschi sulla diffusione (anche inconscia) degli stereotipi di genere e sulla loro influenza sulla società.
Ecco l’articolo della Senatrice Cattaneo.
Mi è stato più volte chiesto se il fatto di essere donna e madre abbia in qualche modo condizionato o svantaggiato la mia vita professionale e in che misura. Per anni ho sempre risposto di no: ero sinceramente convinta che la mia scelta di fare ricerca in un ambito in cui la presenza maschile era preponderante non avesse comportato alcuna discriminazione nei miei confronti. Certo, fino a poco tempo fa era perfettamente normale sedermi al tavolo dei relatori di un convegno, in congressi o riunioni accademiche, ed essere circondata da soli colleghi uomini. E ho visto molte donne, colleghe e non, fermarsi un attimo prima di “fare il salto”, per mancanza di opportunità e condizioni, ad esempio per la difficoltà di conciliare un maggiore impegno lavorativo con la presenza in famiglia. A volte ho interpretato, forse sbagliando, queste rinunce come una semplice mancanza di ambizione. In ogni caso, ho sempre dato poco peso al contesto in cui tutto ciò si realizzava.
Nel tempo, anche in seguito a vicende che ho osservato nella mia e in altre Università, questa visione è andata modificandosi. Di fronte a iniziative accademiche fortemente carenti sul piano della parità di genere, ho percepito la difficoltà a riconoscere il problema, la tendenza a negare ogni ipotesi di discriminazione e la resistenza ad accettare di parlarne, come se anche solo discutere di gender gap fosse già un’ammissione. Ogni richiesta di bilanciamento veniva interpretata come una forzatura. Ho preso quindi sempre più coscienza di come possa essere riduttivo denunciare soltanto il cosiddetto “soffitto di cristallo”, perché quell’immagine induce a pensare che il problema del gender gap sia solo nell’ “ultimo miglio” professionale, ai gradi più alti della carriera. Ho invece toccato con mano quanto la disparità di genere sia radicata a ogni livello, dentro e fuori le Università, consolidata da schemi comportamentali profondi e dominanti che ci ancorano per storia evolutiva a ruoli sociali prefissati, dati per scontati.
Nel libro “Doppio standard” la sociologa dell’Università del Salento Camilla Gaiaschi spiega come gli stereotipi di genere siano molto più diffusi di quanto la maggior parte di noi sia portata a credere, instillati fin dall’infanzia e presenti in entrambi i sessi, condizionandone comportamenti e messaggi consci e inconsci. Le differenze, ricorda Gaiaschi, si esprimono a partire dalla pre-adolescenza perché è in quel momento che le ragazze iniziano a perdere autostima. Altri studi evidenziano che il divario nei risultati ottenuti dagli adolescenti maschi e femmine nelle materie scientifiche non è costante, né nel tempo né geograficamente.
La professoressa Elsa Fornero, già Ministra del Lavoro, in un editoriale per l’8 marzo 2023, rilevava come, dopo un’infanzia già segnata da questi stereotipi, le differenze di genere “proseguono nell’incoraggiamento famigliare e sociale verso percorsi più scientifici per i ragazzi e più umanistici per le ragazze, con conseguenti minori opportunità su lavoro, progressione di carriera, retribuzione”. Esiste, inoltre, un’ampia letteratura scientifica sull’effetto degli stereotipi di genere inconsci nel mondo del lavoro, che portano reclutatori e selezionatori a ritenere le donne meno competenti, con effetti negativi su assunzioni e promozioni. Tutti questi messaggi, interiorizzati sin dall’infanzia, finiscono per far credere, alle ragazze prima e alle donne poi, di essere inadeguate a determinati ruoli o ambiti di studio o di lavoro. Ho quindi compreso che le differenze nello sviluppo di determinate attitudini non sono innate, bensì innescate da fattori socio-culturali. E che il divario di genere può essere studiato e analizzato scientificamente con dati, modelli e interpretazioni.