Dichiarandosi favorevole all’obbligo, previsto dal Miur, di utilizzare la lingua inglese per i progetti candidati ai nuovi bandi Prin, la senatrice Cattaneo co-firma con la linguista Roberta D’Alessandro un articolo su Repubblica, in risposta al professor Asor Rosa che qualche giorno prima, sullo stesso giornale, aveva deplorato tale scelta.
“La ricerca, scientifica e umanistica, è per sua natura collaborativa, globalizzata e specialistica. Ecco perché è impossibile fare a meno di una lingua comune. E se è vero che l’inglese gode di un certo prestigio internazionale, ciò non è certamente dovuto al suo uso nei PRIN (i progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale banditi dal Miur).
Come l’antica lingua franca del Mediterraneo serviva a persone di lingue diverse per comunicare tra loro, ma non era più prestigiosa delle lingue locali, così l’inglese dei PRIN è solo uno strumento per comunicare, in modo univoco, tra scienziati di Paesi diversi. L’idea che un progetto debba contenere delle sfumature stilistiche è a dir poco singolare: sinonimi e abbellimenti creano ricchezza testuale ma anche imprecisione. Una proposta progettuale deve essere invece chiara ed esplicita, non soggetta a equivoci interpretativi.
È importante fare attenzione a non confondere la lingua oggetto della ricerca con la lingua in cui la ricerca viene comunicata. Studi sull’abruzzese, ad esempio, sono stati realizzati (in inglese) da ricercatori americani, austriaci, cinesi, francesi e catalani. La ricerca sul pirahã, lingua brasiliana senza scrittura, è stata condotta quasi interamente da linguisti americani, e comunicata in inglese. I parlanti di pirahã sono solo poche centinaia: nessuno avrebbe saputo quanto è speciale senza l’inglese.
L’Italia, come tutti gli altri Paesi europei, utilizza l’inglese nella ricerca almeno da quando esiste la Direzione Generale europea per Ricerca e Innovazione, che ne impone a tutti l’uso per i bandi della Commissione Europea. Chi scrive ha vinto dei bandi europei di ricerca (ERC). In un caso il progetto (in inglese) verte sulle lingue e sui dialetti degli emigranti italiani in America. Nell’altro caso, chi scrive ha agito anche da proponente e coordinatrice di due Large Network europei da decine di milioni di euro su staminali per Huntington e Parkinson: l’uso dell’italiano avrebbe escluso il gruppo, l’università di appartenenza e l’Italia dalla partecipazione e dal conseguente finanziamento del progetto.
Un altro buon motivo per scegliere l’inglese sta nell’altissima specializzazione e nella diversificazione delle competenze nella comunità scientifica. L’unico esperto mondiale sull’argomento di un progetto italiano potrebbe trovarsi, per esempio, in Giappone. E a lui (o a lei) bisognerebbe rivolgersi per valutarne la fattibilità, non a un ricercatore che conoscesse l’italiano ma non l’argomento.
Infine, va sottolineato che l’impatto dell’inglese dei PRIN sulla lingua italiana è nullo: 4000 documenti di dieci pagine in inglese, fatti circolare solo tra scienziati, molti dei quali all’estero, non hanno alcuna influenza sull’uso della lingua a livello nazionale. Altra cosa sarebbe introdurre l’obbligo dell’inglese nei corsi di laurea, come ad esempio in Olanda.
L’uso dell’inglese ha permesso di ampliare la base dei valutatori, coinvolgendo quelli stranieri. Il nostro auspicio è che tutti i 4000 progetti dell’ultimo bando PRIN siano inviati all’estero, superando l’opzione dei valutatori sul suolo italiano – anche per omogeneità tra valutazioni – e limitando così i rischi di contiguità tra valutato e valutatore, di “scambi” e “dipendenze” in una comunità scientifica troppo piccola e autoreferenziale in cui ci si valuta tra le stesse persone. Così si agisce negli altri Paesi, e infatti noi italiani siamo spesso chiamati a valutare progetti (scritti in inglese) che ci arrivano dall’intero globo.
L’Italia della ricerca (e non solo) cambierà quando si creerà un’Agenzia Nazionale della Ricerca (che, unici in Europa, ancora non abbiamo), a garanzia della trasparenza nelle procedure di assegnazione di fondi. Il bando PRIN si muove in questa direzione. La scelta della Ministra Fedeli, quasi obbligata dalla straordinarietà di un alto budget e un alto numero di ricercatori partecipanti, è espressione di grande responsabilità nella buona gestione delle risorse pubbliche. Di certo accrescerà la nostra competitività nei bandi europei e intercontinentali”.
Elena Cattaneo, docente della Statale di Milano e senatrice a vita
Roberta D’Alessandro, docente dell’Università di Utrecht e membro della Commissione per la Responsabilità nella Ricerca scientifica dell’ICSU
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