Sul Messaggero di sabato 19 febbraio, Elena Cattaneo fa il punto sui bandi per i Partenariati Estesi di ricerca, a cura del Ministero dell’Università, da finanziarsi con i fondi del Pnrr. Il rischio, nota la senatrice, è quello che i fondi vengano investiti senza a monte una reale competizione.
Ecco l’articolo della senatrice Cattaneo.
“Senza ricerca non può esserci innovazione, e senza innovazione non può esserci progresso”. Così il Presidente del Consiglio mercoledì scorso, in visita ai laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, impegnandosi – con riferimento anche alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – a mettere la ricerca “al centro della crescita dell’Italia”. Da studiosa che da trent’anni fa ricerca in un laboratorio di un’università pubblica, mi chiedo se le parole del Presidente Draghi, seppur sincere e concrete, saranno confermate da una reale opportunità di competere ad “armi pari” tra tutti i ricercatori animati dalla passione e dall’entusiasmo di contribuire a scoprire nuovi pezzi di conoscenza a beneficio di tutti.
Se infatti è innegabile che il Pnrr rappresenti una (forse irripetibile) occasione di rilancio del settore, penalizzato da anni di miopi tagli di risorse, non si può ignorare l’enorme rischio – paventato ieri anche dall’Accademia dei Lincei – che questa possa tradursi in una opaca spartizione di risorse, priva di visione a lungo termine, non aperta alla competizione. In questo ambito, come in altri, non basterà impegnare le risorse rispettando le tempistiche decise in sede europea; altrettanto importanti saranno le regole con cui si deciderà di farlo.
A breve usciranno i bandi per i Partenariati estesi, attesissimi dalla comunità scientifica, che potranno contare su 1,6 miliardi per finanziare – come da Linee guida ministeriali – almeno dieci grandi programmi di ricerca fondamentale e/o applicata trasversale, con dimensioni e quote di finanziamento diverse, realizzati da reti diffuse di università, Enti pubblici di ricerca (Epr) ed altri soggetti pubblici e privati impegnati in attività di ricerca, “auspicabilmente organizzati in una struttura consortile”.
È comprensibile che una tale prospettiva abbia stimolato confronti e contatti tra Università ed Epr. Meno comprensibile, invece, è il metodo semi-segreto con cui tali confronti e contatti si sono sviluppati. Un metodo privo delle necessarie caratteristiche di apertura e trasparenza, che ha di fatto tenuto all’oscuro gran parte dei ricercatori esperti delle materie oggetto del futuro bando, impedendo loro di esercitare la libertà di progettare ipotesi di ricerca. Ancora meno comprensibile è la tentazione di concentrare tutte le forze in cordate tra enti che puntino a presentare una sola proposta per ciascuna tematica, con l’obiettivo di non “pestarsi i piedi” a vicenda e di mantenere il controllo sui progetti che saranno finanziati – e, di conseguenza, su chi nei prossimi anni avrà opportunità di crescita e chi no. Eppure questo è proprio lo scenario che pressoché tutti gli “addetti ai lavori” si attendono e il bando in uscita si limiterà a certificare.
Un tale scenario determinerebbe l’affossamento dell’iniziativa, appiattendo qualunque concorrenza tra idee, con il rischio, tra l’altro, di lasciar fuori ricercatori eccellenti in un determinato settore solo perché l’istituzione a cui afferiscono ha deciso di proporsi (o è stata inserita) in un’area tematica diversa. Che, nella seduta del Consiglio di Amministrazione di un’Istituzione di ricerca, il finanziamento di un progetto da presentare in risposta a un bando che deve ancora uscire possa essere dato per “sostanzialmente certo” è – per me – aberrante. Uno schiaffo a apertura, trasparenza e merito.
Per evitare il rischio di ritrovarsi alla chiusura del bando con una sola proposta per ognuna delle tematiche indicate dal Ministero, si potrebbe immaginare di limitare fortemente il numero di enti che possono far parte di un Partenariato, così da stimolare la presentazione di più progetti e idee in competizione. Le competenze potrebbero inoltre essere valorizzate introducendo una robusta percentuale minima (almeno il 50%) obbligatoria di finanziamento da riservare a ricercatori affiliati a enti non inclusi nel Partenariato. Soprattutto, un programma davvero rivolto alla Next Generation dovrebbe essere ideato e guidato da una nuova generazione di ricercatori, o comunque prevedere che il ruolo di principal investigator, vale a dire responsabili della ricerca, venga assunto prevalentemente da ricercatori nelle fasi iniziali della carriera.
Infine, è fondamentale che il Ministero dell’Università preveda, nei suoi bandi, una misurabilità dell’impatto degli investimenti effettuati. Per i Partenariati ciò potrebbe realizzarsi con la previsione che l’ultima tranche di finanziamento sia corrisposta (o meno) in base a una valutazione ex post dei progetti vincitori, legata al raggiungimento di significativi obiettivi di qualità, coerenti con l’obiettivo “Next Generation”.
Se il 2021 è stato l’anno dell’approvazione del Pnrr, il 2026 sarà l’anno in cui l’Italia, compresa quella della ricerca, dovrà tornare a navigare in mare aperto senza i booster economici oggi disponibili. È questo il momento di chiedersi se vogliamo promuovere una ricerca basata su principi di trasparenza e merito, universalmente riconosciuti dal metodo della scienza e dalla buona amministrazione pubblica, o se invece vogliamo favorire un sistema chiuso, dove tutto è già deciso, in forza di amicizie, prossimità e appartenenze, prima che le regole per partecipare siano messe a conoscenza di tutti. Pensare di poter rinviare o ignorare oggi questa riflessione sarebbe un errore cui difficilmente si potrà porre rimedio domani.
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