Nel suo editoriale sull’inserto D del quotidiano La Repubblica, Elena Cattaneo racconta le recenti scoperte sulle varianti del genoma umano più o meno suscettibili al virus SARS-CoV-2, arrivate grazie alla collaborazione di centinaia di gruppi di ricerca in tutto il mondo, che hanno lavorato uniti, mentre la stampa italiana continua ad alimentare la percezione della “scienza divisa”.
Ecco l’editoriale della Senatrice Cattaneo:
“Nel 1957 due virologi, Isaacs e Lindenman, durante alcuni studi su tessuti infettati dal virus dell’influenza scoprirono delle proteine in grado di interferire con il virus stesso permettendo all’organismo di resistere. Furono chiamate, per questo, “interferoni”. Come si scoprì più avanti, queste stesse proteine hanno un ruolo di difesa anche rispetto ad altri virus e malattie (ad esempio nell’inibire la crescita di cellule tumorali).
Diversi gruppi di ricerca di recente si sono domandati se gli interferoni potessero avere una funzione anche nell’aiutare l’organismo a opporre resistenza o a evitare gli esiti più gravi dovuti a . Due studi pubblicati a ottobre su Science hanno riportato le prime risposte.
Una di queste due pubblicazioni ha coinvolto 85 istituzioni di ricerca da tutto il mondo – sei dall’Italia – per studiare il ruolo di eventuali varianti del genoma umano, vale a dire il nostro Dna, nel causare una risposta più o meno grave dell’organismo al virus. Sono stati sequenziati i genomi di 653 pazienti ospedalizzati, tra 1 e 99 anni, e si è scoperto che il 7% di loro aveva una variante nel genoma responsabile di una minore produzione di interferone. Lo studio ha dimostrato che questo “difetto” del genoma rende l’organismo più suscettibile al virus e alle sue conseguenze (evidenza che sembra confermata anche da un più recente studio di un gruppo guidato dal Prof. Alberto Mantovani dell’Istituto Humanitas). Da qui l’ipotesi – tutta da dimostrare – che la somministrazione di interferone possa garantire un beneficio nel trattamento della malattia.
Al secondo studio hanno partecipato 73 enti, di cui nove italiani, su un campione di 987 pazienti ospedalizzati e 663 asintomatici, più un gruppo di controllo di 1227 persone. Al termine si è scoperto che il 10% circa degli ospedalizzati (101 pazienti) portava in corpo, già prima dell’infezione da nuovo coronavirus, auto-anticorpi contro gli stessi interferoni. Esposte al virus queste persone non sono state in grado di sviluppare una difesa basata sui livelli di interferone. Le conseguenze sono state le stesse riscontrate in chi esprimeva poco interferone a causa di una variante del genoma: una maggiore vulnerabilità nei confronti di SARS-CoV-2.
Solo provando a immedesimarci in questi ricercatori che dal Canada all’Europa, dalla Colombia all’Arabia Saudita, hanno studiato – distantissimi, ma insieme e in soli dieci mesi – per verificare la stessa ipotesi, per poi convergere sugli stessi risultati, possiamo comprendere quanto la comunità mondiale degli studiosi sia in grado di fare squadra per realizzare, unita, accelerazioni conoscitive inimmaginabili. Basti pensare alle strategie vaccinali oggi in campo.
Discostandosi dalla polemica quotidiana, dal titolo urlato sulla “scienza divisa”, mai come in questo momento storico è tangibile la percezione della conoscenza come di una “foresta che cresce”, grazie all’impegno convergente di migliaia di menti che lavorano all’unisono, pesando ogni dato, senza frontiere né appartenenze religiose e politiche. Se decidessimo di dedicarvi la necessaria attenzione, il “rumore” di questa conoscenza in perenne crescita, per una volta, potrebbe coprire quello cupo e opprimente del singolo albero che cade, dissipando in parte la paura di un virus che ci ha fatto riscoprire una fragilità di cui almeno la parte più fortunata del mondo aveva perso memoria e coscienza”.
Elena Cattaneo
Docente della Statale di Milano e Senatrice a vita
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