Nel suo editoriale di sabato 5 agosto sull’inserto D di Repubblica, Elena Cattaneo racconta di come il gene che causa la malattia di Huntington fu identificato esattamente 30 anni fa, grazie alla cooperazione tra scienziati e al sangue donato dagli abitanti di alcuni poverissimi villaggi sudamericani, e la storia di una di queste persone, la signora Dilia Oviedo.
Ecco l’editoriale della senatrice Cattaneo.
Esattamente 30 anni fa, grazie a quello che il New York Times descrisse come “un raro esempio di cooperazione scientifica”, fu scoperto il gene Huntington. Era il 1993, il Progetto genoma umano che nel 2000 avrebbe portato alla prima lettura – ancorché parziale – del nostro Dna era agli esordi, quando i ricercatori di sei laboratori di Stati Uniti, Inghilterra e Galles compirono un’impresa scientifica eccezionale: individuare la base genetica della Corea di Huntington, malattia neurodegenerativa ereditaria. La scoperta fu pubblicata dalla rivista scientifica Cell a firma dello Huntington’s Disease Collaborative Research Group. La storia di questa impresa merita di essere ricordata anche per il suo valore sociale.
Nel 1979, tre genetisti, David Housman, Jim Gusella e Marcy MacDonald, insieme ad altre decine di colleghi, seguirono Nancy Wexler, neuropsicologa e a sua volta genetista, in Venezuela, sulle sponde del lago Maracaibo, nei villaggi con più alta densità di malati Huntington. Wexler era convinta che in quei luoghi remoti – dove ancora oggi 7 individui su mille sono pazienti Huntington, un dato fino a 500 volte superiore all’Italia – avrebbe trovato risposte sull’origine della malattia che aveva colpito la madre, il nonno e alcuni zii. Nei mesi trascorsi in Venezuela, Housman, Gusella e MacDonald ebbero un’intuizione: “tagliare” il Dna ottenuto dai prelievi di sangue su quelle popolazioni e confrontare i frammenti del genoma delle persone sane con quelli dei malati. Dopo innumerevoli tentativi, nel 1983 riuscirono a isolare il “pezzetto” di Dna presente solo nelle persone che manifestavano i sintomi della malattia: movimenti scoordinati degli arti, mimica facciale alterata, depressione e disturbi psichiatrici. Il gene che causa l’Huntington era prossimo a quel frammento, che infatti veniva sempre co-ereditato con la malattia. Ma, con le limitate strumentazioni dell’epoca, trovare il punto esatto, nonostante quella prossimità, rimaneva un’impresa complessa quanto cercare un ago sul tratto di autostrada tra Roma e Milano. Servirono altri dieci anni e migliaia di prove e confronti di tratti di Dna per localizzare il gene Huntington: era il 1993 quando Gusella comunicò a Wexler che era stato individuato all’apice del cromosoma quattro. Da allora, sappiamo anche che è rappresentato da una stringa di tre lettere, CAG (tre delle quattro basi del Dna, Citosina, Adenosina e Guanina), che si ripetono a tre a tre. La malattia si presenta, inesorabile, quando le triplette superano le 35 ripetizioni. Un “difetto” genetico che fu descritto come una sorta di “balbuzie molecolare”.
Nel 1993, nella periferia di El Dificil, in Colombia, viveva Dilia Oviedo, una donna di 56 anni, minuta ed elegante. Da giovanissima aveva sposato Valentin, insieme avevano avuto undici figli. Per anni Dilia e Valentin erano stati felici con la loro numerosa famiglia; poi cominciò a manifestarsi la malattia – dapprima in Valentin, poi in ben nove dei figli – e quella fortuna sembrò trasformarsi in una condanna. I sintomi sono poi comparsi anche in molti dei loro nipoti e pronipoti. Ho conosciuto Dilia nel 2017 a Roma, in occasione dell’evento “Hidden No More” in cui centinaia di malati Huntington dell’America Latina e di altri 25 paesi hanno incontrato Papa Francesco: aveva già perso il marito e cinque figli. Dilia, allora ottantenne, mi confidò di aver creduto per molto tempo che la malattia esistesse solo nella sua famiglia, allontanata e isolata da tutti. La derisione e la segregazione da parte della comunità li avevano costretti ad abbandonare il villaggio in cui avevano sempre abitato. Ma Dilia non si è arresa: nonostante l’estrema povertà, ha trasformato la nuova casa in un “porto sicuro” per i tanti familiari malati che, quando iniziavano a manifestare i primi sintomi, venivano affidati alle sue cure. Da poche settimane Dilia ha lasciato questo mondo.
A lei va la gratitudine per una vita vissuta con e per gli altri. A noi spetta il compito di raccogliere la sua eredità. Un modo per farlo è continuare a ricordare la sua storia, accanto a quella scientifica di Nancy Wexler e della scoperta del gene. Storie di determinazione e coraggio essenziali a comprendere ogni aspetto dell’Huntington, una malattia “sociale” che, mentre racconta della nostra evoluzione come specie, ci insegna l’importanza di cancellare ogni stigma e di difendere il valore dell’accoglienza e del prendersi cura gli uni degli altri. Anche tramite il lavoro di associazioni come Factor H (*), dove l’ “H ” richiama l’Huntington, ma anche l’umanità (Humanity) e la speranza (Hope).
(*) Per sostenere persone e famiglie in condizioni di difficoltà simili a quelle di Dilia, si può consultare il sito dell’Associazione Factor H: factor-h.org