Attività promosse dalla Sen. Elena Cattaneo in Senato
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DDL Agricoltura biologica: studi scientifici a confronto

Durante l’esame del disegno di legge 988 – “Agricoltura con metodo biologico” in Commissione Sanità al Senato, Elena Cattaneo ha inviato alcune osservazioni alla senatrice relatrice del testo in commissione. Quest’ultima, nel decidere di non includere le osservazioni della senatrice Cattaneo nel parere finale della Commissione sul ddl, ha portato alla sua attenzione alcuni studi comparativi su prodotti biologici e da altri tipi di agricoltura. Tali studi evidenziano la sostanziale analogia tra i due gruppi di prodotti, come la senatrice Cattaneo nota nella sua risposta, che qui pubblichiamo.

Ecco la risposta della senatrice Cattaneo:

“Gentile collega,

grazie per i due studi allegati (Vigar et al., Nutrients, 2019; Mie et al., EH Journal, 2017) che ho consultato con interesse. Da anni, infatti, studio il tema dell’innovazione in agricoltura e della sua sostenibilità, anche se estraneo al mio ambito di ricerca, avvalendomi del supporto di numerosi specialisti in tutti i suoi settori, poiché lo ritengo strategico non solo per il nostro Paese, ma a livello globale.

Rispetto alle segnalazioni che mi ero premurata di inviare a Lei e al Presidente Collina, che legge in copia, in merito al ddl 998 e alle affermazioni prive di evidenze scientifiche veicolate (anche ai cittadini) in tale testo di legge, lei mi risponde che in base alle “ricerche da lei effettuate” risulterebbe che:

1) … “un certo numero di evidenze fanno propendere in maniera importante per la tesi della maggiore salubrità degli alimenti biologici
Devo farle notare che né l’uno né l’altro degli articoli da lei segnalati evidenzia dati scientificamente solidi a favore della maggiore salubrità degli alimenti biologici. Essi confermano piuttosto quanto già noto: cioè che il migliore stato di salute riscontrato in chi ha l’abitudine di consumare bio è solitamente dovuto al suo essere, in media, una persona più istruita, più ricca e più attenta alla propria salute da tutti i punti di vista rispetto al campione preso a confronto. In altre parole non è “l’alimentazione bio” la discriminante, ma il fatto che stiamo parlando di persone che in ogni caso consumerebbero, rispetto alla media della popolazione, più frutta, verdura e cereali integrali (i cui effetti benefici sulla salute sono ben noti), e che conducono uno stile di vita generalmente più sano e “rilassato” – in parte anche perché possono permetterselo economicamente – così come possono “non badare a spese” per acquistare alimenti, come i prodotti biologici, più costosi e percepiti come “migliori” pur in assenza di alcuna evidenza scientifica.

In sintesi: la sua affermazione non corrisponde al vero.

2) la salubrità dei prodotti bio sarebbe dovuta a una “certa minor presenza di residui di pesticidi e di antibiotici, la cui pericolosità è certa
Probabilmente non le è familiare il fatto che “pericolo” e “rischio”, spesso erroneamente usati come sinonimi, sono due concetti molto diversi. Il “pericolo” è la potenzialità teorica di un prodotto, di una sostanza o di un’azione di causare un effetto indesiderato o tossico. È “pericoloso” il fuoco, anche quello di un banale accendino in vendita dal tabaccaio; sono “pericolose” le lame, anche quelle di molti coltelli venduti in un normale supermercato. Ogni studioso, però, sa che il “rischio” è ben altra cosa, ovvero la misura o stima delle condizioni in cui tale “pericolo” può causare danno all’uomo e delle eventuali conseguenze negative.

L’effetto dannoso di una sostanza non è infatti legato alla sua semplice “presenza” ma dipende dalla dose (quantità), dal tempo, dalla frequenza di esposizione e da altri fattori. Il sole è pericoloso. Se ci avvicinassimo a questa stella ne resteremmo bruciati, ma alla distanza in cui (non a caso) ruota la Terra, se non eccediamo nell’esposizione prolungata ai suoi raggi, soprattutto ad alcune latitudini, non ne avremo danno. E infatti ci muoviamo nel globo senza cognizione di quel drammatico pericolo nell’universo. E, grazie a queste valutazioni, nessuno si azzarda a dire che il sole vada spento (anche se è veramente “pericoloso”!). Anche l’acqua è certamente pericolosa: se le dovesse capitare di berne sei o più litri in pochissime ore, rischierebbe la vita (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1770067/). Tuttavia, la scienza medica concorda che un paio di litri nell’arco di 24 ore siano una quantità non solo sicura, ma benefica per la salute.

Ecco perché la sua affermazione secondo cui “i residui di pesticidi hanno una pericolosità certa” (intendendo, immagino, per la salute) in realtà non è fondata alle normali dosi d’uso. Frasi del genere, soprattutto se enunciate da chi ha il compito istituzionale di legiferare (anche) sulla salute pubblica, andrebbero sempre accompagnate dall’indicazione delle dosi e delle circostanze in cui tale pericolo diventa rischio. Quindi, bere due litri d’acqua in un giorno non è rischioso, berne sei tutti di seguito certamente lo è; allo stesso modo, assumere un milionesimo della massima dose sicura di residui di glifosate non è rischioso, bere qualche litro di glifosate puro certamente lo è (anche perché presenta uno sgradevole sapore di acido formico, come mi informa un docente della mia stessa Università, che lo ha assaggiato in pubblico per sfatare false narrazioni e dicerie). Impostare correttamente la comunicazione, soprattutto in politica, significa anche essere chiari su concetti quali la differenza tra rischio e pericolo, per evitare di alimentare nei cittadini paure infondate.

Alla luce di quanto esposto, l’affermazione che mi propone è quindi errata in quanto l’attenzione deve concentrarsi nella considerazione del “rischio” eventualmente posto dai pesticidi. E per farlo basta rifarsi alle Linee guida per una sana alimentazione 2018 del CREA, che recitano:

Gli alimenti sul mercato italiano soddisfano pienamente i limiti imposti per legge. Infatti, il 97,4% dei prodotti da agricoltura convenzionale e integrata e il 99,5% dei prodotti ottenuti con metodo biologico rispettano tali limiti. Nel complesso, la preoccupazione dei consumatori italiani relativamente all’esposizione da residui di fitofarmaci è eccessiva rispetto al rischio effettivo. Infatti, l’esposizione ai singoli fitofarmaci, anche nei gruppi di popolazione più esposti, non giunge al massimo 20%, ma più spesso molto al di sotto del 20%, della Dose giornaliera ammissibile (DGA) ossia a quella quantità di una sostanza che le persone possono consumare tutti i giorni per tutta la vita senza che questo determini rischi per la salute. Per giunta questi limiti sono predisposti prudenzialmente molto più bassi del livello che potrebbe realmente causare rischi per la salute“.

Le analisi, quindi, ci dicono che i prodotti agricoli frutto dei due metodi di coltivazione, integrata/convenzionale e biologica, per come praticati in Italia, presentano poco più di un 2% di differenza nei residui che superano i limiti di legge. Ma attenzione: le ricordo che i limiti dei residui NON sono limiti sanitari ma agronomici e sono indice della corretta utilizzazione del prodotto. Questi limiti agronomici (limite massimo di residuo) sono stabiliti solo se compatibili con i limiti tossicologici (DGA) e per la maggior parte dei composti stimano una assunzione con la dieta che è molto inferiore alla DGA.

A ciò si somma quanto evidenziato dagli esperti del gruppo SETA (https://www.setanet.it/chi-siamo/) nel materiale che hanno inviato alla Commissione Sanità la scorsa settimana e alla sua specifica attenzione, in quanto relatrice del ddl 988 in Commissione. In particolare, la invito a osservare con attenzione le riproduzioni fotografiche delle etichette di alcuni prodotti fitosanitari utilizzati nell’agricoltura biologica (si veda allegato 1), il cui impatto sull’ambiente e sulla salute umana ed animale è spesso del tutto analogo, quando non più rilevante, rispetto a quello dei prodotti ammessi in agricoltura integrata – sia in termini di pericolo che di rischio.

Giova peraltro rilevare che la promozione del biologico presso i consumatori avviene utilizzando come argomento principe quello che lei stessa utilizza, secondo il quale nei prodotti da agricoltura convenzionale vi sarebbe una maggiore “presenza di residui di pesticidi e di antibiotici, la cui pericolosità è certa”. Tale argomento – che, come enucleato sopra, la letteratura scientifica disponibile dimostra essere privo di evidenze – mi preoccupa in modo particolare per il fatto che instilla timori infondati nei cittadini.

Per quanto riguarda la tematica dei residui di antibiotici nell’allevamento animale, da tempo l’Italia si impegna nella promozione di un uso più consapevole di tali farmaci: l’uso nei nostri allevamenti è calato del 30% in soli sei anni (Ministero della Salute, 2018, Dati di vendita dei medicinali veterinari contenenti agenti antimicrobici 2016). Peraltro, sebbene molti lo ignorino, perfino gli standard di produzione biologici – vedasi ad esempio quelli del CCPB (Consorzio per il Controllo dei prodotti Biologici) – contemplano l’uso di antibiotici e “farmaci allopatici” per gli animali, qualora i rimedi omeopatici (la cui efficacia non è dimostrata né dimostrabile scientificamente) permessi dai disciplinari si rivelino inefficaci.

3) esisterebbe infine, secondo lei, evidenza della “maggior presenza di sostanze antiossidanti e vitamine in prodotti da agricoltura biologica rispetto a quelli da agricoltura convenzionale“.

Anche in questo caso gli articoli scientifici che ha allegato non suffragano questa sua opinione: lo studio Vigar et al., Nutrients, 2019 da lei citato precisa infatti che non esistono ad oggi evidenze scientifiche rispetto alla maggior salubrità dei prodotti biologici rispetto a quelli da agricoltura integrata: “Any possible clinical effects of such differences need further investigation“.

Anche qualora tale maggior salubrità si riuscisse a dimostrare, tuttavia, resta da notare che le conclusioni dello studio Mie et al, EH Journal, 2017 da lei citato sottolineano come “The advantages in general do not necessarily require organic food production as strictly defined in current legislation. Certain production methods, such as changes in the use of pesticides and antibiotics, can be implemented in conventional production, e.g. supporting a development towards a sustainable use of pesticides. Thereby, practices and developments in organic agriculture can have substantial public health benefits also outside the organic sector“. Ovvero, quelli che gli autori sostengono essere i vantaggi del bio, nei fatti, non sono il risultato dell’aderenza ai protocolli del bio, ma si producono anche al di fuori, applicando una serie di buone pratiche nell’agricoltura convenzionale.

Chiunque si occupi di agricoltura, oggi, è ben cosciente che le buone pratiche volte a ricavare dalla terra “di più con meno (pesticidi, lavorazioni, emissioni nocive etc.)” non siano appannaggio esclusivo dei coltivatori biologici, ma costituiscano un orientamento complessivo alla sostenibilità condiviso da larga parte degli imprenditori del settore primario italiano – dei quali, ricordo, quelli certificati bio rappresentano il 6% secondo il report “Bio in cifre 2019”, l’ultimo pubblicato dal Sinab (Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica). Lo stesso report evidenzia che, su circa 1,95 milioni di ettari di terreni certificati biologici nel nostro Paese (che rappresentano il 15% di tutte le terre coltivate nel nostro Paese, pari a 13 milioni di ettari), circa la metà (835mila ettari) sono prati, pascoli, foraggere, foreste o superfici di raccolta libera. Terreni in cui è indistinguibile la differenza col convenzionale, dato che non vi si praticano trattamenti agronomici di sorta, ma che ricevono comunque i sussidi previsti per la coltivazione bio.

Conclusioni 

Un ddl come quello in discussione contraddice, o quantomeno ignora, quanto affermato negli stessi studi da lei citati. Il testo del ddl, infatti, nella sua formulazione attuale considera addirittura l’agricoltura biologica “interesse nazionale” per il nostro Paese e ne dà per certo il contributo alla “tutela della salute” ignorando che il biologico è una certificazione di processo, non di prodotto. L’etichetta “bio”, cioè, semplicemente ci dice che quella merce è stata prodotta utilizzando alcuni prodotti fitosanitari e alcune tecnologie e non altri, ma non dà (perché non può dare) alcuna garanzia “evidence-based” sulla qualità finale dei prodotti o sui vantaggi che questi porterebbero a chi li sceglie.

Prescindendo da credenze personali e superstizioni – che in una politica basata sui fatti non dovrebbero trovare spazio – i portatori di interesse del bio non hanno elementi scientifici per vantare la qualità dei propri prodotti come migliore. Ed è questo, per me, il vero problema: promuovere una legge che fa credere al cittadino che i prodotti bio che acquisterà (spesso a caro prezzo) possano “far bene alla sua salute”, in quanto migliori degli altri che invece (si adombra) potrebbero “far male” o almeno “meno bene”. Questo è un principio ingannevole, poiché non basato su dati riscontrabili e verificati. 

Il principale dato “scientificamente rilevabile” che distingue i prodotti biologici da quelli che non lo sono è piuttosto il prezzo al consumo, che nel bio è spesso doppio (!) rispetto ai prodotti (ottimi) dell’agricoltura integrata italiana; ciò credo rappresenti un problema e non un vantaggio per i cittadini, soprattutto per quelli meno abbienti, spinti a credere che, se non spendono una considerevole parte dei loro guadagni per acquistare bio, non tuteleranno a sufficienza né l’ambiente né la salute dei loro figli.

Questo diventa anche un problema etico non indifferente che può indurre alcune persone a considerarsi di “serie B” se non spendono di più per “convertire al bio” sé stessi e i propri figli. A fronte di una capacità di spesa che resta limitata, dunque, con il bio il potere d’acquisto dei cittadini diminuisce: o acquistano la stessa quantità di frutta e verdura, ma dovendo rinunciare ad altre spese, oppure decidono di mantenere costanti le altre spese ma acquistano minori quantità di alimenti che invece andrebbero consumati in abbondanza (frutta e verdura) in quanto ricchi di vitamine e di antiossidanti, con un consolidato effetto preventivo rispetto ai tumori, solo perché sono stati convinti che quegli alimenti “debbano essere bio”.

Le faccio notare che è proprio lo studio Mie et al. 2017 da lei citato a rivelare appieno la falsità di questa narrazione colpevolizzante, in quanto conferma che anche frutta e verdura coltivate al di fuori dei protocolli biologici presentano le stesse caratteristiche di quelle bio.

Tutto quanto sopra senza nemmeno cominciare a citare il comma 1.3 del provvedimento in discussione, che, “ai fini della presente legge”, equipara il metodo biologico (il quale, come abbiamo visto, non ha l’esclusiva delle buone pratiche agricole, né garantisce prodotti di migliore qualità) a una vera e propria pratica esoterica quale l’agricoltura biodinamica. Un’equiparazione che, me lo si consenta, lungi dal tutelare la salute pubblica, è pericolosa per la “salute mentale” di un Paese dove generalmente il metodo scientifico è ben poco conosciuto e ancor meno praticato, e molti cittadini non hanno quindi sufficienti strumenti per distinguere la scienza dalla ciarlataneria e dalla superstizione.

Chiedo quindi a lei e al Presidente Collina, che legge in copia: quale credibilità possono avere, nel 2020, decisioni politiche che affidano la “sicurezza alimentare”, la “tutela della salute” e lo “sviluppo sostenibile” a prodotti coltivati usando crani di cervi riempiti di fiori di achillea oppure fertilizzati con un corno di vacca (che abbia partorito almeno una volta) riempito di letame affinché i raggi cosmici (“catturati” dalla vacca quando era in vita tramite le corna) compenetrati ne attivino le proprietà fertilizzanti? Il tutto a vantaggio di poche migliaia di aziende (e solo 400 certificate dal marchio registrato privato tedesco biodinamico di DEMETER), come gli stessi portatori di interesse del biodinamico hanno confermato in audizione in commissione Agricoltura sul ddl 988, che sfruttano questo tipo di superstizioni per vendere prodotti senza vantaggi certificati a prezzo maggiorato?

Resta da parte mia, dunque, una forte indignazione verso decisioni politiche che non hanno alcuna base fattuale, oltre all’incredulità sul perché, da legislatori, si scelga di investire una quota non irrilevante di risorse pubbliche per incentivare specificamente un protocollo agricolo di nicchia che non presenta vantaggi rilevabili per la salute pubblica o per l’economia del Paese – cui per giunta si aggiunge la stregoneria biodinamica. 

L’aumento delle superfici coltivate a biologico a livello globale, poi, sarebbe devastante anche per l’ambiente, come dimostrano numerosi studi, tra i quali Muller et al. , Nature communication, 2017 (https://www.nature.com/articles/s41467-017-01410-w) in cui si spiega che se si convertisse l’intera agricoltura planetaria a biologico entro il 2050 si avrebbe:

  • un maggior consumo di suolo tra il 16 ed il 33% (a causa delle minori rese del biologico);
  • un aumento della deforestazione tra l’8-15%;
  • un aumento della produzione di gas serra tra l’8 ed il 12%;
  • un aumento del consumo di acqua del 60%.

Le rese delle coltivazioni biologiche, infatti, arrivano ad essere anche meno della metà di quelle dell’agricoltura convenzionale. Ciò significa che qualora tali pratiche diventassero davvero “di massa”, uno dei loro effetti sull’agricoltura (e quindi sull’economia) italiana sarebbe quello della diminuzione delle produzioni, il che ci porterà a dipendere di più dall’estero e soprattutto dal Terzo Mondo per le importazioni di prodotti agroalimentari.

Un altro effetto costituirebbe una vera e propria minaccia per l’ambiente, poiché il bio richiede un consumo di suolo che per alcuni prodotti arriva ad essere il doppio rispetto all’attuale, maggiori lavorazioni meccaniche per il diserbo, maggior impiego di “pesticidi di copertura” inquinanti come il rame (anche quello usato in biologico – che peraltro prevede processi di sintesi chimica per essere trasformato in un prodotto per uso fitosanitario), forte dipendenza dai prodotti di scarto dell’allevamento animale (anche e soprattutto quello convenzionale, compreso l’intensivo) per la fertilizzazione dei campi. Tutto questo è documentato e documentabile.

Una politica che legifera senza basarsi sui dati si espone all’accusa di voler mantenere il proprio potere incutendo paure nel cittadino e facendo leva sull’ignoranza, né più né meno come i populismi che quasi tutti – a parole – stigmatizzano.

Le conseguenze delle decisioni prese oggi, soprattutto su un settore strategico come quello dell’agricoltura, influenzeranno l’economia italiana, europea e mondiale, la salute dei cittadini e i rapporti geopolitici per i decenni a venire: sarebbe dunque auspicabile che, nel legiferare, si tenesse in maggior considerazione quanto emerge chiaramente dalle evidenze scientifiche. Compito del legislatore sarebbe impostare una politica strategica di largo respiro, senza demonizzare o esaltare in maniera preconcetta metodi e pratiche, ma favorendo sempre la ricerca, l’innovazione e la libertà di imprenditori e consumatori di scegliere ciò che ritengono migliore, sulla base di dati verificati e non di superstizioni, campagne denigratorie o “mode del momento”. 

Spero di aver chiarito ulteriormente, rispetto al mio primo invio, le ragioni che mi hanno portata a formulare le proposte di osservazioni non accolte; comprendo comunque come il tempo dedicato alla discussione di provvedimenti non direttamente correlati alla particolare situazione del Paese sia di necessità, in questi mesi, contingentato al massimo.

Qualora da parte sua (anche in vista di futuri eventuali atti parlamentari) sussista un interesse ad approfondire queste tematiche, avrò piacere di parlarle nuovamente e di metterla anche in contatto – se desidera – con alcuni studiosi ed esperti della materia con cui più volte mi sono confrontata in questi anni. Da parte mia continuerò a segnalare in ogni sede gli errori e le infondatezze di talune decisioni politiche, che devono avere basi ben fragili, se a loro supporto non si trova di meglio che citare articoli scientifici che, nei fatti, affermano l’opposto.

Confido che le osservazioni da ultimo condivise potranno essere utili per una discussione approfondita in aula di un disegno di legge che presenta numerose criticità, fallacie, incongruenze e contraddizioni con la realtà, solo parzialmente affrontate nel presente scambio.

Cordiali saluti
Elena Cattaneo”