In occasione della ripresa dell’esame del ddl “Agricoltura con metodo biologico” nella competente commissione del Senato, Elena Cattaneo, sul Messaggero, ricorda come il miglioramento genetico delle colture sia la strada da seguire per un minore impatto ambientale.
Negli anni ‘90 l’Italia era (con la Francia) il paese leader nelle biotecnologie agrarie in Europa. Poi, in tanti hanno deciso di andarsene o di cambiare settore di ricerca. Il motivo? Nel nostro Paese vige un insieme di norme che impediscono agli scienziati di studiare e agli imprenditori di coltivare piante geneticamente migliorate. I frutti derivanti dall’applicazione della nuova tecnologia Crispr/Cas9 sviluppata dalle scienziate Charpentier e Doudna, che è valsa un applauditissimo Nobel, sono proibiti agli scienziati italiani che non possono sperimentarli in campo aperto, così come le consolidate ed efficaci tecnologie di miglioramento genetico, gli Ogm, (in)disponibili da decenni.
Questi sono gli effetti delle limitazioni alla ricerca pubblica imposte da vent’anni. Eppure, mai come oggi c’è una richiesta forte e chiara per una maggiore sostenibilità ambientale a cui – in pochi lo sanno – proprio (tutte) le biotecnologie potrebbero contribuire, studiando come rendere le piante resistenti a malattie e parassiti, o a condizioni climatiche sempre più estreme, in modo da poter ridurre o eliminare l’utilizzo di fitofarmaci (anche non di sintesi come quelli a base di rame, autorizzati in agricoltura biologica), fertilizzanti o lavorazioni che contribuiscono ad aumentare le emissioni dannose.
La strategia Farm to fork, lanciata nell’ambito del Green Deal europeo, ha fra i suoi obiettivi, entro il 2030, quello di ridurre del 50% l’uso di pesticidi, ma anche incentivare l’agricoltura biologica fino al 25% del totale delle superfici agricole utilizzate. Si tratta di obiettivi opposti, che possono coesistere perché basati sull’ “equivoco” di non chiamare pesticidi quelli usati in agricoltura biologica. Ma c’è di più. In uno studio pubblicato su Nature (Muller et al., 2017), i ricercatori hanno ipotizzato lo scenario di una conversione dell’intera agricoltura planetaria a biologico entro il 2050. Le conseguenze per l’ambiente sarebbero le seguenti: date le documentate minori rese del bio, il consumo di suolo aumenterebbe tra il 16 e il 33% e la deforestazione tra l’8 e il 15%; crescerebbe anche la produzione di gas serra (tra l’8 e il 12%) e il consumo di acqua fino al 60%. Inoltre, viste le incertezze delle rese del biologico, garantire cibo sufficiente ai Paesi meno ricchi sarebbe più difficile. In altre parole portare al 25% le superfici coltivate a biologico significa ridurre la disponibilità di cibo, alzare i prezzi, e per l’Europa, aumentare la dipendenza dall’importazione di derrate alimentari.
Perché, dunque, non riscoprire una concezione “laica” e scientificamente fondata della sostenibilità? Perché non integrare competenze e tecnologie (anche di ingegneria genetica) che la ricerca scientifica mette a disposizione per ottenere “di più con meno”? Produrre più cibo, di maggiore qualità, utilizzando meno suolo, acqua e pesticidi e salvaguardando l’ambiente è possibile. Per farlo è necessario liberarsi delle distinzioni dogmatiche “a priori” su prodotti e metodi, e ragionare decidendo volta per volta, seme per seme, pianta per pianta, campo per campo la strategia migliore.
In Senato questa settimana è ripresa la discussione su una proposta di legge che va in tutt’altra direzione e mira a promuovere specificamente in Italia l’agricoltura con metodo biologico, sul presupposto di una sua assoluta maggiore sostenibilità ambientale e nutrizionale. Un presupposto che, rispetto all’agricoltura “di massa” che sfama il mondo, viene contraddetto dalle evidenze disponibili, che tuttavia nessuno – almeno in Parlamento – sembra voler comprendere e utilizzare.
Dario Casati, accademico dei Georgofili, ha scritto, a proposito dell’impatto della pandemia da Covid-19 sul comparto agricolo, che “è giunto il momento di smettere di inseguire fumosi sogni di agricolture alternative figlie dell’anti-scienza o di miopi regole sulle pratiche agricole. Dobbiamo tornare a un’agricoltura sostenibile e avanzata, sorretta dal vero progresso scientifico”. Ecco, questa sì sarebbe una buona notizia per la nostra agricoltura e per la salute del pianeta.
Elena Cattaneo
Docente dell’Università di Milano e Senatrice a vita