Nella sua rubrica sul settimanale D di Repubblica, la senatrice Cattaneo racconta degli ottimi risultati ottenuti dai ricercatori italiani nell’aggiudicarsi i fondi del prestigioso European Research Council (ERC) per i loro progetti, e di alcune ragioni per cui questa “vittoria” si trasforma in una sconfitta nel momento in cui la maggior parte di loro decide di portare avanti quei progetti fuori dall’Italia, in Paesi più attrattivi per la scienza e la ricerca, mentre dall’estero ben pochi vincitori di ERC scelgono l’Italia come sede.
Di seguito, l’editoriale della senatrice Cattaneo.
Ogni anno, il Consiglio europeo della ricerca (ERC) apre bandi competitivi per progetti innovativi rivolti a ricercatori agli inizi della carriera (Starting Grant), a studiosi che chiedono di potenziare una direzione di ricerca solida e importante (Consolidator Grant) o a quelli che, con curriculum già consolidato, propongono un’idea dirompente su un fronte inesplorato (Advanced Grant). A questi si aggiungono borse competitive per chi è già assegnatario di un finanziamento ERC (Proof of Concept) o per progetti che raggruppano diversi team di ricerca (Synergy Grant). Riconoscimenti ambiti sia per l’entità dei fondi, sia perché il “marchio” ERC è considerato nel mondo garanzia di eccellenza scientifica.
Ebbene, nel 2020 ben 53 Starting Grant sono stati assegnati a progetti di ricercatori italiani, secondi solo ai 102 dei tedeschi; nei Consolidator Grant conquistiamo il gradino più alto con 47 progetti; sugli Advanced Grant gli italiani sono quinti, con 14 progetti vincitori. Ma le buone notizie finiscono qui. Le statistiche sui Paesi che ospiteranno i progetti finanziati, infatti, rivelano che in Italia si svolgeranno appena 20 dei 53 studi finanziati dagli Starting (facendoci precipitare al decimo posto della graduatoria), 17 di quelli finanziati dai Consolidator (nono posto), 11 degli Advanced (settimo posto). Un altro elemento di riflessione è il numero di Starting Grant in scienze della vita che si svolgeranno in Italia: solo uno. In sintesi: anche grazie ai ricercatori Italiani – che formiamo evidentemente molto bene nelle nostre università – la ricerca degli altri Paesi procede a gonfie vele. I motivi di questo sbilanciamento sono tanti. Ne affronto uno.
Luca Bonini, ricercatore dell’Università di Parma già vincitore di uno Starting Grant e di un Proof of Concept, si è aggiudicato uno di quei 17 Consolidator Grant “italiani in Italia”. Nel nuovo progetto analizza nell’animale il complesso funzionamento di centinaia di neuroni in differenti stati emozionali, con legami ai disturbi neuropsichiatrici. Lo stesso Bonini partecipa al progetto ERC LightUp, il cui responsabile è un altro stimato neuroscienziato dell’Università di Torino, Marco Tamietto. Il progetto, che prevede una fase di test su macachi, è costato minacce e intimidazioni ai due studiosi, che si sono detti pronti a portarlo all’estero se fra poche settimane (l’udienza è fissata al 28 gennaio) il Consiglio di Stato ne confermerà la sospensione richiesta dagli animalisti.
Nel 2013, in nome di una surreale “par condicio sulla scienza”, il Tar del Lazio contestò la composizione della Commissione scientifica che aveva bocciato il cosiddetto “metodo” Stamina, per l’assenza di studiosi favorevoli all’intruglio proposto. Come chiedere che, in una commissione sui fenomeni astronomici, metà dei membri sia favorevole alle tesi terrapiattiste. La tendenza – anche recente – dei supremi giudici amministrativi di sconfessare delicate valutazioni di sanità pubblica da parte di organi tecnico-scientifici europei e italiani, come AIFA e Consiglio superiore di sanità, è un segnale preoccupante di quanto il Paese resti ostile alla ricerca scientifica anche di fronte all’emergenza pandemica.
I dottorandi italiani di Bioscienze hanno lanciato l’hashtag #nonlasciatecifuggire. L’interesse a farli restare è innanzitutto il nostro. Invece di continuare a ostacolarne la libertà di studiare, ascoltiamoli.
A questo link è possibile consultare e scaricare l’articolo in formato PDF.