Attività promosse dalla Sen. Elena Cattaneo in Senato
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Involuzione democratica – Dal Foglio, 11 settembre 2018

Il Foglio sceglie di pubblicare un estratto del libro “Ogni giorno – Tra scienza e politica” della senatrice Elena Cattaneo, col sottotitolo “Ieri come oggi l’“antintellettualismo” indica una crisi culturale e civile del sistema. Si legge ‘totalitarismo’.”

Ecco lo stralcio del libro di Elena Cattaneo pubblicato sull’inserto del Foglio di martedì 11 settembre.

“Da un punto di vista storico, l’antintellettualismo non ha affatto padri nobili e, a noi italiani, per ritrovare tracce di questo atteggiamento, basta analizzare il Ventennio fascista per averne un esempio eclatante. In quel periodo le parole d’ordine erano impulsività, fedeltà al partito, giovanilismo, azione. Parole che volevano segnare un insanabile contrasto con il pensiero critico, la pacata riflessione delle diverse istanze democratiche, delle scelte condivise e anche un rifiuto dell’ironia e autoironia che il lavoro intellettuale inevitabilmente produce, conscio tanto delle proprie alte priorità e responsabilità sociali quanto, e soprattutto, dei propri limiti. Nello stesso periodo, anche in Germania si scatenò un sentimento simile contro gli intellettuali, specie se ebrei, ben riassunto dal terrificante motto attribuito a Goebbels, in realtà mutuato dal capo della gioventù hitleriana, Baldur von Schirach: «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola».

Nel Novecento l’antintellettualismo si è dunque inesorabilmente accompagnato al totalitarismo. Dal punto di vista delle dittature (o di gruppi che amano il potere per il potere), questi timori verso gli intellettuali o comunque la parte colta e istruita della popolazione sono comprensibili. Una cittadinanza partecipativa, una classe dirigente, politica e amministrativa ben preparata e un solido corpo accademico rappresentano da sempre un potente argine alle ingerenze di qualsivoglia spinta autoritaria. Ecco perché, ieri come oggi, ogni folata di «antintellettualismo», ogni sberleffo al sapere accademico, è un brutto segno, un indicatore di una crisi culturale e civile del sistema liberaldemocratico. Al fine di capire il substrato psicologico ed evolutivo che sta dietro i molti atteggiamenti antiscientisti e, più in generale, antintellettuali, psicologi e filosofi cognitivi hanno ritenuto utile analizzare anche alcuni processi mentali, ovvero quelli che oggi la scienza chiama i processi della «razionalità limitata e bias cognitivi». Questi, legati all’interpretazione delle informazioni basate su pregiudizi e credenze, portano a errori di valutazione o mancanza di oggettività quando si esprime un giudizio. Su queste basi, è probabile che la diffidenza che, in alcune situazioni particolari, parte della popolazione mostra nei confronti della scienza, oltre ad avere ragioni storiche recenti (quelle appena accennate), abbia anche una spiegazione evolutiva.

Negli ultimi decenni diversi studiosi, tra cui il Premio Nobel Daniel Kahneman, hanno dimostrato che alcuni processi decisionali dell’agire umano, e in modo esemplare quelli economici, non sono affatto logici e razionali. Il nostro cervello può elaborare informazioni limitate, in un tempo limitato. Scelte, modi di ragionare, deduzioni e aspettative appartengono, ricordiamocelo, a un cervello che si è adattato per sopravvivere nel Pleistocene, dove le scelte decisionali erano tutt’altre. I nostri antenati vivevano nella savana in un contesto di risorse scarse, dove era assai più adattativo avere un atteggiamento conservativo e limitato al «qui e ora» che non di investimento sul medio e lungo termine. Queste distorsioni nella capacità di giudizio, questi vincoli cognitivi alla razionalità, si chiamano, appunto, bias cognitivi. Un bias molto comune, detto «bias di conferma», consiste per esempio nel selezionare le informazioni possedute in modo da dare maggiore credibilità a quelle che confermano le proprie convinzioni e, viceversa, ignorare o sminuire quelle che le contraddicono. Un altro esempio è il cosiddetto bias del «ritorno di fiamma» (backfire) che spiega perché coloro che hanno idee profondamente radicate su un determinato tema come per esempio l’erronea convinzione che i vaccini provochino l’autismo, anche se messe davanti a una serie di dati incontrovertibili che dimostrano che quella relazione è inesistente, non solo non cambiano idea ma addirittura, come nei ritorni di fiamma, la loro convinzione subisce una nuova vampata di adesione e rinforzo.

Uno studio di Nyhan e collaboratori pubblicato nel 2014 dalla rivista «Pediatrics» indica che cambiare idea, anche a fronte di verità certe, è difficile. Cioè che i bias cognitivi sono sempre all’opera, e possono esserlo anche nelle mistificazioni politiche dei fatti. Lo studio indagava la propensione a vaccinare i figli da parte di quei genitori che erano contrari, dopo che fosse stata loro illustrata ogni informazione utile a escludere qualsiasi responsabilità nello sviluppo dell’autismo. Ebbene, i genitori non favorevoli alla vaccinazione capivano bene la falsità delle tesi che legavano la vaccinazione all’insorgenza dell’autismo e correggevano la loro percezione, ciononostante proseguivano nella decisione di non esporre i figli a vaccinazione.

Questa, che potrebbe apparire una divagazione psicologico-evolutiva, ci aiuta a capire che i concetti e il metodo della scienza risultano quasi innaturali per il nostro cervello e suggeriscono che forse è per questo che, se non consapevoli di questa circostanza, parte della popolazione – ivi compresi alcuni colleghi parlamentari – tali concetti li rifiuta, li ritiene inutili o addirittura dannosi. In qualche modo, questi timori sono naturali ma, come si è tentato di argomentare, il fatto che siano naturali non vuol dire che siano affidabili o positivi – infatti è un bias anche la credenza secondo cui ciò che è «naturale» sia buono e affidabile, a differenza di ciò che è artificiale o prodotto dall’uomo.

La scoperta e soprattutto la conoscenza dell’esistenza di questi processi mentali, frutto appunto di lontani retaggi evolutivi e che ho citato per brevi capi, sono comunque utili non solo quando si intende fare una buona divulgazione scientifica ma anche per chiunque si trovi a dover mediare tra il mondo della scienza e quello della società, della politica e delle istituzioni. Possono essere tra gli elementi di conoscenza e consapevolezza adatti per capire perché ci sia questa resistenza a inserire nel contesto legislativo le competenze tecnico-scientifiche, ma anche per comprendere come, per fare un esempio recente, il Parlamento abbia potuto considerare attendibile, e materia su cui legiferare, il cosiddetto «metodo Stamina».

Ovviamente, anche gli scienziati sono vittime di questi limiti cognitivi, ma a differenza di altre professioni la scienza li comprende al punto da avere escogitato degli strumenti e delle metodologie per ridurre al minimo gli effetti di distorsione nella valutazione della realtà oggettiva. Come, per fare un esempio, l’introduzione del placebo, ovvero di un finto trattamento farmacologico (una pastiglia di zucchero) indistinguibile da un trattamento farmacologico vero. Come è noto, si usa per eliminare gli effetti dovuti ai condizionamenti tanto dei pazienti, che desiderano guarire e accentuano i sintomi positivi sminuendo quelli negativi, tanto dei ricercatori, che tendono a isolare i dati che confermano le loro ipotesi eliminando quelli in contrasto.

Troppe volte la comunità scientifica ha sbagliato le modalità con cui accreditarsi presso le istituzionali e la società. Spesso dimenticandosi che la narrazione del fatto scientifico deve essere necessariamente continua, da realizzare ogni giorno, anche «in tempo di pace». (…)
Forse anche perché maltrattata per anni, buona parte della comunità scientifica si è proposta alla società quasi chiedendo un religioso ascolto di ogni sua parola e istanza, rivendicando una autorevolezza che in realtà è da riconquistare ogni giorno. (…) Troppe volte la comunità scientifica è rimasta nelle retrovie, adottando un atteggiamento prudente nell’intervenire nei dibattiti pubblici solo perché la discussione era scivolata (inevitabilmente) su tesi non scientifiche, lasciando così campo libero a pseudo-colleghi stregoni, a ciarlatani, a improvvisatori di cui la peggior politica fa ampio uso o, talvolta, ne è vittima in buona fede.

Troppo spesso le società scientifiche e le accademie hanno rinunciato a svolgere il loro prezioso ruolo di controllore della fondatezza scientifica delle diverse posizioni, tacendo, o intervenendo troppo tardi, ogni volta che un’idiozia veniva portata all’attenzione pubblica, in particolare quando a dire l’idiozia era un ministro di turno, magari per guadagnarsi effimere premialità. Tutto questo ha comportato e comporta gravi costi sociali, tra cui lasciare carta bianca a insensatezze che inquinano ogni possibile dibattito serio, oltre a impedire alla scienza di affermarsi e di partecipare, come dovrebbe sempre, alla costruzione delle decisioni politiche e, infine, determinando involuzioni continue. (…)

Più volte mi sono domandata perché e cosa fa sì che in diversi paesi, tra i quali non c’è l’Italia, gli scienziati siano più apprezzati e richiesti come interlocutori politici, o possano anche arrivare a guidare un governo (è il caso della cancelliera Angela Merkel e di diversi leader asiatici) e dimostrare le loro capacità in ambito pubblico. Più volte ho immaginato un presidente del Consiglio italiano capace anche solo di avvicinarsi alle parole del presidente Obama quando dichiarò che «il pubblico deve essere messo nelle condizioni di credere alla scienza e alle analisi scientifiche che informano la politica», e per farlo da sempre cerco di capire, studiando i fatti, quale debba essere il peso della ricerca e dell’innovazione nel nostro paese e come possiamo assicurarci che «in ogni campo del sapere scientifico stiamo finanziando l’idea che non è subordinata alla politica, che non si è deviati da un’agenda [estranea], come possiamo essere sicuri che andiamo dove ci portano le prove. Perché questa è la ragione per cui investiamo nella scienza», per citare le parole dell’allora Presidente degli Stati Uniti, durante il suo intervento alla National Academy of Sciences nel 2013.

Qualcosa ho capito quando mi è stato ricordato che in Italia esiste dai tempi di Croce e Gentile un orientamento che sminuisce il peso culturale della scienza, sul piano conoscitivo e soprattutto come impresa che incarna valori etici forti. Queste filosofie hanno ispirato scelte educative e politiche che non hanno mai aiutato il paese ad agganciarsi stabilmente alle economie della conoscenza cresciute dal secondo dopoguerra, prima nei paesi di tradizione anglosassone e protestante e poi nel mondo asiatico. Ecco, forse, l’origine dei tanti inciampi del fronte politico italiano su temi che proprio non mastica e circa i quali (spesso) ha rinunciato a ricercare le prove, o lo ha fatto solo dopo, a latte versato.”

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