Nella sua rubrica sul settimanale D di Repubblica, la senatrice Cattaneo fa il punto sull’agricoltura biologica, che può contare sui sussidi pubblici. Ma è poco salutare per le tasche di chi acquista i prodotti e, allargando lo sguardo, per la popolazione mondiale.
Così la senatrice Elena Cattaneo su D del 21 luglio 2018:
“Giordano Masini è un giornalista e imprenditore agricolo. In un’intervista al Post dello scorso anno, nello spiegare la scelta di coltivare biologico, raccontava come la sua esperienza di agricoltore si fosse ben presto trasformata in quella di “un contabile di sussidi e incentivi pubblici” e come l’agricoltura oggi sia “una rendita slegata dal proprio lavoro”. Ma anche come l’immagine romantico-bucolica evocata per raccontare di quanti, come lui, hanno deciso di “tornare alla madre terra”, spesso sbiadisca di fronte alla realtà. O, ancora, come la parola “naturale” alimenti la convinzione di un prodotto “migliore” per poi dare origine a miti e mode quale, ad esempio, quella dei “semi antichi” (come se esistessero davvero) su cui pure ci sarebbe molto da scrivere.
Fra gli equivoci su cui si regge il racconto del prodotto “naturale=buono” c’è il concetto stesso di “biologico” che nulla ha a che fare con la qualità in sé dei prodotti (proposta come superiore) o del presunto maggiore valore nutritivo (che, secondo un’indagine di Altroconsumo, non hanno). Il biologico è “solo” una certificazione di una procedura di produzione, non di un gusto o di qualità finali migliori. Di sicuro, il biologico fa bene a chi lo produce, meno alle tasche di chi lo acquista e, a voler allargare lo sguardo, alla popolazione mondiale.
Chi avvia un’azienda biologica rinuncia a pesticidi e fertilizzanti di sintesi (ma non agli agrofarmaci autorizzati dai protocolli di certificazione bio, come i prodotti a base di rame, il cui impatto ambientale è tutt’altro che nullo vista la loro permanenza nei terreni per decenni) ed è per questo in balìa di rese imprevedibili. Ma potrà contare su una certezza ben più importante ai fini della sopravvivenza della propria azienda: quella dei sussidi pubblici che assicurano una rendita minimizzando i rischi. Può anche non esserci raccolto (procedimento costoso) ma ci sarà una rendita (sussidi). Anche un pascolo “incolto”, dichiarato “biologico”, riceverà i sussidi. Così i terreni “a biologico” aumentano ma non la produzione. Chi al supermercato acquista prodotti biologici, invece, crede di scegliere un prodotto vantaggioso per la salute o l’ambiente ed è pronto a spendere tra il 30 al 110% in più. Ma, nella maggior parte dei casi, non sa che da questa maggiore spesa non ci guadagna né l’uno né l’altro. Anzi. Poiché i campi biologici producono molto poco, a parità di prodotto (più costoso) serve più terreno, circa il 40% di suolo in più.
La Rivoluzione Verde ha dimostrato che l’agricoltura più sostenibile è quella intensiva: grazie ai nuovi fertilizzanti, agli agrofarmaci e alla meccanizzazione dell’agricoltura (tutti odierni nemici delle tendenze “bio” e del mitologico “ritorno alla natura”) dal 1950 in poi la resa del frumento è quadruplicata, con la conseguente possibilità di sfamare più persone, senza che aumentasse in parallelo la superficie coltivata. Accantonato il biologico dei non-vantaggi, per produrre e nutrirci riducendo l’uso di agrofarmaci possiamo ricorrere alle biotecnologie agrarie: un tempo si mischiavano genomi a caso, ora possiamo cambiare poche lettere del DNA e rendere la pianta resistente a parassiti riducendo irrorazioni di antiparassitari e erbicidi. Invece delle trenta irrorazioni, le mele potrebbero resistere autonomamente.
Ciascuno deve sentirsi libero di decidere in che modo vivere, ma con la consapevolezza che alcune scelte cancellerebbero mezzo secolo di progressi per tornare a un tempo in cui, come ricorda l’agronomo Tommaso Maggiore, si diserbava a mano, con gambe e braccia – spesso unicamente femminili – a mollo nelle risaie per 650 ore per ogni ettaro, con implicazioni sulla salute e un rincaro di quattro volte sul costo del riso”.
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