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Gli equivoci sul glifosato – Da Repubblica del 1 dicembre 2017

In occasione del rinnovo dell’autorizzazione all’erbicida glifosato da parte dell’Unione Europea, la Senatrice Cattaneo, per punti, cerca di sgombrare il campo da alcuni equivoci molto spesso diffusi anche sui più autorevoli mezzi di informazione.

In occasione del rinnovo dell’autorizzazione all’erbicida glifosato da parte dell’Unione Europea, cerchiamo, per punti, di sgombrare il campo da alcuni equivoci.

1. Lo IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha detto che “il glifosato è probabilmente cancerogeno”. Occorre aggiungere due note. La prima: lo IARC divide sostanze e abitudini in “cancerogene” (gruppo 1), “probabilmente” (gruppo 2A) o “possibilmente” cancerogene (gruppo 2B). Il glifosato è stato messo nel gruppo 2A, lo stesso della carne rossa, dei fumi della frittura e del lavoro notturno. Nel gruppo 1 troviamo carni lavorate e etanolo, quindi anche salumi e vini tipici del Made in Italy. Salumi che sappiamo provenire da animali alimentati per l’87% con mangimi OGM. La seconda nota: due componenti del team di lavoro IARC sul glifosato hanno riconosciuto di aver omesso di informare il gruppo circa alcuni dati che ne mostravano la non cancerogenicità o di dichiarare contratti di consulenza con studi legali ostili agli agrofarmaci e al glifosato in particolare.

2. Diversamente dallo IARC, l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) e l’ECHA (Agenzia europea delle sostanze chimiche) scrivono: “È improbabile che l’assunzione di glifosato attraverso la dieta sia cancerogena per l’uomo”: una persona di 60 chili non correrebbe rischi da glifosato neanche mangiando oltre 270 kg di pasta al giorno, tutta la vita.

3. Il brevetto Monsanto sull’erbicida è scaduto nel 2001. Gli agricoltori lo usano sui loro campi perché costa poco, circa 9 euro/ettaro, viene degradato velocemente dai batteri nel terreno ed è efficace, ma si usa anche per diserbare strade e binari. Molte delle aziende che lo vendono sono italiane, 350 i prodotti autorizzati dal Ministero della Salute che lo contengono. Il primo produttore mondiale è la Cina.

4. Non utilizzare il glifosato significherebbe tornare agli anni ’50, diserbando a mano i campi. Oppure usare altri erbicidi, molto più costosi, meno efficaci (che costringono a più trattamenti), e dai profili tossicologici simili.

Qual è, dunque, il futuro dell’agricoltura? È improbabile, dati alla mano, che sarà il biologico com’è inteso oggi. Non solo perché i prodotti bio nella grande distribuzione presentano un ingiustificato ricarico di prezzo, non differendo in qualità al consumo rispetto ai corrispettivi non biologici; non solo perché le procedure del biologico su larga scala sono piene di deroghe e truffe. Ma soprattutto perché con tali procedure si produce pochissimo, consumando il 40% di suolo in più degli altri modelli di agricoltura. Inoltre, usando letami e farine animali – fertilizzanti azotati derivati della zootecnia, com’è prassi nel biologico- si emettono gas serra e si consumano alimenti vegetali, prodotti con fertilizzanti azotati di sintesi, ottenuti da oli combustibili. Per asciugare, poi, i residui di macellazione e farne le farine animali da spargere nei campi del biologico serve altra energia.

L’agricoltura del futuro dovrà invece essere a basso impatto e usare piante migliorate geneticamente per evitare gas serra e agrofarmaci e per assimilare meglio i fertilizzanti, combattere la denutrizione sperimentando le varianti genetiche che rendono le piante resistenti e sfruttare l’innovazione per ottenere chirurgiche variazioni del DNA tali da rendere, senza usare la chimica, tante nostre piante non attaccabili dai parassiti, consentendo anche il recupero della biodiversità afflitta dai patogeni o in via di estinzione. Un compito della ricerca scientifica pubblica, anche di quella in campo aperto, vietata in Italia. Serve tantissima ricerca, ma anche più fiducia e trasparenza, meno slogan e ideologie.