Nel suo editoriale di sabato 13 luglio, per lo speciale di D di Repubblica dedicato alla saggezza delle donne, Elena Cattaneo rievoca il suo incontro con la genetista statunitense Nancy Wexler, che ha mostrato al mondo come l’aspetto scientifico e quello umanitario della ricerca si possano conciliare.
Ecco l’articolo della senatrice Cattaneo.
“Le nostre vite sono anche il frutto degli incontri che ci accadono. La mia vita, ad esempio, non sarebbe stata la stessa se non avessi incontrato una donna, una scienziata, con lunghissimi capelli biondi e un progetto scientifico (e umanitario) visionario e dirompente.
Ho visto per la prima volta Nancy Wexler nel 1989, a Boston, durante una sua conferenza al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Ero lì da pochi mesi e stavo muovendo i primi passi da ricercatrice nel laboratorio di Ron McKay, pioniere degli studi sulle cellule staminali. Erano gli anni in cui la passione per la scienza prendeva forma. Ascoltare Nancy, in quel preciso momento della mia vita, in quel luogo, infiammò quella passione. Quel giorno mi fu chiaro che, qualunque specifico ambito di studio avessi scelto per le mie ricerche, l’aspetto umanitario sarebbe dovuto andare di pari passo con quello scientifico.
Nancy Wexler, scienziata, genetista, si era posta l’obiettivo enorme di scoprire il gene responsabile della malattia che aveva colpito sua madre e altri suoi parenti, fonte di vergogna, isolamento e stigma per la sua famiglia. La malattia è la Corea di Huntington, di cui lei stessa avrebbe scoperto di essere affetta anni dopo: è una malattia neurodegenerativa ed ereditaria (i figli dei malati hanno il 50% di possibilità di ereditare il gene) e provoca la morte dei neuroni che controllano movimenti, emozioni e anche alcune funzioni cognitive. Da oltre trent’anni è al centro dei miei studi nel mio laboratorio alla Statale di Milano, anche con l’idea di proseguire l’impresa (non solo scientifica) iniziata da Nancy.
Questa malattia è presente in Italia, dove colpisce una persona su diecimila, ma già dagli anni Settanta era noto che l’incidenza fosse altissima in Sud America, in particolare in Venezuela, nei villaggi lungo le sponde del lago Maracaibo, e nelle zone più povere della Colombia. In quelle famiglie poverissime, isolate dalle loro comunità a causa dello stigma associato alla malattia, il gene mutato si trasmette di generazione in generazione ai numerosi figli. Proprio da loro Nancy andò per la prima volta nel 1979, insieme ai migliori genetisti dell’epoca, che aveva reclutato in ogni angolo del mondo e convinto a seguirla con un semplice “Let’s go to Venezuela” e un’idea straordinariamente all’avanguardia per i tempi: ricavare dal sangue di quelle popolazioni il DNA di chi presentava i sintomi della malattia e confrontarlo con quello di chi non li aveva, per individuare piccole variazioni che avrebbero potuto indicare dove e quale potesse essere il gene implicato. Fu un’impresa unica, il primo tentativo di mettere mani e occhi sul DNA, anticipando di decenni il Progetto Genoma Umano. Oltre alla fiducia dei colleghi, Nancy dovette conquistare anche quella delle comunità dei malati, “gli indemoniati”, come venivano considerati in anni in cui la scienza non aveva ancora dato una spiegazione ai movimenti improvvisi e scoordinati causati dall’Huntington. Ci sono fotografie bellissime di Nancy in quegli anni, mentre abbraccia i bambini di quei villaggi divenuti per lei una sorta di seconda casa. Ce n’è un’altra che restituisce il senso dell’enormità dell’impresa di ricercare il gene che causa la malattia: vi è ritratta Nancy che scruta decine di tratti genealogici stampati su grandi fogli che ricoprono le pareti di una stanza, per definire i gradi di parentela tra familiari e generazioni, mappando 18 mila ancestori nati e vissuti in quelle zone. Ci vollero quattro anni per il primo traguardo, l’identificazione della “zona” del nostro lungo DNA (3 miliardi di nucleotidi) presente solo nelle persone che manifestavano i segni della malattia e in cui presumibilmente era localizzato il gene. Poi altri dieci anni per identificare l’esatto punto “dell’incidente”, il gene mutato. Arduo come cercare una spilla da balia lungo tutta l’Autostrada del Sole.
Nancy e gli scienziati che la seguirono in Venezuela dimostrano a tutto il mondo come ogni singola persona possa fare la differenza, forte delle idee, della passione, del lavoro di squadra. Anche per questo, trent’anni dopo quel primo incontro al MIT, continuo a raccontare la sua storia. Non potevo non farlo in un numero di “D” dedicato alla saggezza delle donne. Nonostante la sfida umana e scientifica di Nancy possa apparire a tratti “spericolata”, c’è saggezza nella determinazione, coerenza, vitalità e rigore con cui ha perseguito un obiettivo che sembrava insormontabile, tessendo una rete che ha incluso tutti. Nancy Wexler non è solo la pioniera assoluta delle conoscenze accumulate sulla malattia di Huntington, ma anche un modello a cui guardare per trovare la forza necessaria a perseguire quel che desideriamo davvero fare ed essere nella nostra vita”.
A questo link è possibile consultare e scaricare l’articolo in formato PDF.