“Grazie, ma io resto in piedi”. Era il giugno del 2008, e, all’Università Statale di Milano, una Rita Levi-Montalcini novantanovenne era da un’ora e mezza in piedi, a parlare delle sue ricerche di fronte a centinaia di studenti adoranti. Io feci per porgerle una sedia; lei mi rispose così. Da allora, quella frase mi è rimasta in testa. Quante volte la giovane Rita è rimasta dritta in piedi, tra guerra, fame, leggi razziali e persecuzioni? La retorica del “non cedere alle avversità” è ben lontana dall’essere facile, quando a non cedere devi essere tu. Come non ha ceduto Rita nell’essere quella che è stata, una donna-scienziata in un periodo storico in cui alle donne veniva prescritto di essere madri e mogli. Una scienziata ebrea nell’Italia delle leggi razziali. Eppure nulla l’ha fermata. Rita è il paradigma monumentale della scienziata a tutto tondo di cui ho letto e studiato, una donna che ha avuto la forza di coltivare la sua idea contro tutto e tutti.
Rita lascia l’Italia nel ‘39, ma un anno dopo torna a Torino e nella sua stanza da letto, sulla scrivania, allestisce un piccolo laboratorio composto da tre oggetti: un incubatore per le uova, un microscopio, un bagnetto riscaldato per sciogliere la cera. Con tutto il suo intelletto e la sua genialità, voleva usare quei mezzi rudimentali per studiare come i neuroni del sistema nervoso si collegano agli arti periferici. Ma cosa aveva visto Rita in questa linea di ricerca? Non certo una cura, ma “solo” l’irresistibile possibilità di conquistare un pezzo di conoscenza in più.
Rita ebbe un grande maestro, Giuseppe Levi, che un giorno le raccomandò – senza ulteriori indicazioni – la lettura di un articolo scientifico di Viktor Hamburger, un grande studioso americano che lavorava sugli embrioni di pollo. L’autore descriveva cosa succedeva ai neuroni del sistema nervoso che normalmente si collegano agli arti periferici quando l’arto periferico veniva rimosso precocemente, durante la fase embrionale. Guardando l’embrione 6 giorni dopo la rimozione osservò che, senza arto da innervare, i neuroni non si formavano più. Questo gli fece concludere che il tessuto muscolare dell’arto in sviluppo producesse un segnale induttore della formazione delle cellule nervose. Ma, come spesso accade nella scienza, qualche tempo dopo, in un luogo diverso del mondo, qualcuno guardò a quelle stesse ricerche con occhi diversi. Questo qualcuno era la giovane Rita, nella sua stanza da letto.
Armata di quei tre oggetti, Rita è determinata a ripetere l’esperimento di Hamburger: nel 1940, mentre su Torino cadono le bombe, con un ago da cucito incide una finestrella nel guscio delle uova fecondate, per vedere l’embrione dentro e rimuovere l’abbozzo dell’arto, come aveva fatto lui. Ma Rita decide di procedere diversamente: invece di aspettare una settimana, fa osservazioni giorno dopo giorno, analizzando ogni volta un set di embrioni che avevano subìto la rimozione dell’arto. E così scopre quello che nessuno prima di lei aveva capito. Non è vero che i neuroni non si formano, come sosteneva Hamburger: si formano, mandano il loro prolungamento verso il ‘bersaglio’, ma a quel punto – non essendoci più l‘arto e il fattore “trofico” poi ipotizzato da Rita – degenerano. “Stai dicendo che il grande Hamburger avrebbe torto?” Così deve aver tuonato il suo maestro Giuseppe Levi.
In effetti, la giovane e sconosciuta italiana aveva compreso ciò che al grande e affermato scienziato americano era sfuggito. Ci vollero, tuttavia, altri 15 anni prima che Rita, arrivata negli USA, riuscisse a scoprire con un sufficiente grado di certezza la molecola che garantisce tutto questo, vale a dire il nerve growth factor (NGF). Oggi, grazie alla forza di Rita e del suo team e all’intuizione scientifica e imprenditoriale di un’azienda italiana, la Dompé Farmaceutici, l’NGF è diventato un farmaco efficace per il trattamento di alcune gravi malattie oculari.
Tutti noi beneficiamo dei risultati della ricerca di coloro che studiano per capire e trovare soluzioni a problemi che non si sono ancora presentati. Ce lo ha dimostrato, da ultimo, il vaccino anti-Covid messo a punto in appena un anno, ma grazie ai precedenti 20 anni di ricerca di base. È questo il lascito più forte di Rita Levi-Montalcini, che il nostro Paese fatica a far proprio: investire nelle idee a prescindere dalla loro “utilità” immediata garantisce armi per affrontare il futuro senza paura.
Quando mi capita di parlare ai ragazzi delle circostanze in cui sono nate le scoperte di Rita, cito spesso le parole con cui rispondeva a chi le domandava come fosse riuscita a fare quel che ha fatto, nonostante guerra e persecuzioni. “A me nella vita tutto è riuscito facile. Le difficoltà – diceva – me le sono scrollate di dosso come acqua sulle ali di un’anatra”. Un manifesto di vita a disposizione di tutti coloro che lo vorranno cogliere. Non una spinta alla superficialità dell’ignorare o negare i problemi, bensì un monito a concentrare gli sforzi sull’approfondimento e lo studio, alla ricerca delle migliori soluzioni per andare avanti.
A questo link è possibile consultare e scaricare l’articolo in formato PDF.