Nel suo editoriale di sabato 28 maggio sul settimanale D di Repubblica, la senatrice Cattaneo ricorda come il Parlamento italiano, nel 2015, scelse di recepire la normativa europea sul miglioramento genetico delle colture nella maniera più restrittiva possibile. Un errore di cui oggi vediamo le nefaste conseguenze.
Ecco l’editoriale della senatrice Cattaneo:
Il 12 maggio di sette anni fa, il Senato approvò una delega al governo per recepire la normativa europea che avrebbe consentito a ciascuno Stato di vietare le coltivazioni commerciali di Ogm autorizzati, anche in assenza di evidenze di pericolosità. Quel giorno intervenni in Aula, ricordando come quella direttiva invitasse comunque gli Stati membri, anche se intenzionati a limitare o a vietare la coltivazione sul proprio territorio degli Ogm, a permettere almeno la ricerca scientifica.
Nel mio intervento chiesi ai colleghi senatori di riflettere, senza veti ideologici, sull’opportunità di adottare una strategia per l’agricoltura italiana basata su obiettivi come la tutela delle nostre tipicità, la protezione delle nostre colture e la riduzione dell’impiego di pesticidi, in modo da mantenere o aumentare la resa e competitività del settore. Cercai anche di spiegare perché una politica volta a impedire la ricerca pubblica sulle biotecnologie agrarie in campo aperto ci avrebbe allontanati da quegli obiettivi. La legge fu approvata e di lì a poco l’Italia avrebbe confermato la volontà di vietare le coltivazioni di Ogm sul proprio territorio. Gli studi dei nostri ricercatori sono rimasti chiusi nei cassetti di laboratori e università, data la sostanziale impossibilità – priva di alcuna ragione scientifica – di portare le sperimentazioni fuori dalle serre, “testandole” alle condizioni reali dei campi.
Questo stallo antiscientifico dura da vent’anni e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, con settori come quello sementiero e della mangimistica in allarme rosso a causa della sostanziale perdita di autonomia colturale e produttiva, amplificata dalle limitazioni alle importazioni all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. Un allarme che ha portato varie istituzioni nazionali ed europee, e molte associazioni agricole di categoria, a ipotizzare un ripensamento o una sospensione delle politiche agricole comunitarie di prima della guerra, non solo chiedendo di sbloccare la possibilità di coltivare (con i necessari fitofarmaci) oltre un milione di ettari di terreni a riposo, ma anche promuovendo pubblicamente tecniche di miglioramento genetico delle colture come le cosiddette New Breeding Techniques.
Di recente Marco Pasti, presidente di Confagricoltura Venezia, ha ricordato che negli ultimi dieci anni il Paese ha progressivamente perso quasi la metà delle superfici coltivate a mais, riducendo di conseguenza la produzione e rendendoci sempre più dipendenti dall’estero: nei primi anni duemila l’Italia produceva circa 10 milioni di tonnellate di mais, oggi ne produce a stento sei. Il motivo? Rese stagnanti e rischio di ottenere un prodotto difficile da commercializzare perché contaminato da sostanze tossiche come le aflatossine. Un esempio dei problemi a cui una ricerca libera da condizionamenti ideologici può (e, se liberata, potrà anche in Italia) porre rimedio.
Il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, in un question time alla Camera dello scorso marzo, ha ribadito la necessità di “garantire la sovranità alimentare a livello europeo” e ha riconosciuto che “la crisi sugli approvvigionamenti non sarebbe stata così grave se si fossero fatte scelte lungimiranti”. La crisi di oggi sta portando alla luce una realtà che la politica si è illusa di poter ignorare: non possiamo limitare la nostra agricoltura a produzioni di nicchia per un mercato ricco, esternalizzando il grosso della produzione altrove, col rischio che la nostra sussistenza alimentare sia messa in pericolo da fattori geopolitici che non possiamo controllare.
La geopolitica del cibo, al pari di quella energetica, non si può ignorare. Non correre ai ripari guardando allo squilibrio della nostra bilancia commerciale nelle commodities, è una scelta politica irresponsabile. È ancor più irresponsabile, vista la mole di dati e strumenti a disposizione, ostinarsi ideologicamente a non avvalersi delle migliori conoscenze scientifiche e capacità imprenditoriali per farvi fronte.
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