Sul Messaggero del 30 dicembre 2021, la senatrice Cattaneo riflette su alcuni aspetti della legge di Bilancio appena approvata, volti a promuovere investimenti in ricerca in territori e settori predeterminati, senza apparentemente alcuna preventiva analisi del bisogno.
Ecco l’articolo di Elena Cattaneo, uscito anche sul giornale cartaceo in versione ridotta, consultabile e scaricabile qui in formato PDF.
“Investire in ricerca” è un imperativo necessario che premesse sbagliate possono trasformare in una pessima scelta finanziaria, addirittura controproducente per lo stesso settore che si sostiene di voler promuovere.
Uno degli ultimi esempi è l’emendamento alla legge di Bilancio appena approvata, a prima firma del senatore Daniele Manca, mirato a creare una nuova Fondazione denominata Biotecnopolo di Siena, con una dotazione di 30 milioni di euro, – diventati nelle successive riformulazioni 9 milioni per il 2022, 12 per il 2023 e 16 all’anno per sempre a decorrere dal 2024. Tutto questo, ricostruisce la stampa nazionale e locale, per corrispondere alle promesse formulate dal segretario PD Enrico Letta nella campagna elettorale per vincere il collegio di Siena alle recenti elezioni suppletive.
Il rischio di veder nascere l’ennesimo centro di ricerca sulle scienze della vita dotato di risorse proprie, assegnate senza competizione ogni anno e per sempre, che si sovrappone con un contesto regionale e nazionale già ricco di iniziative e soggetti attivi e produttivi sullo stesso tema è evidente e dovrebbe essere chiaro a chi si interessa di politiche pubbliche, soprattutto in un Paese che conta già 150 tra università, IRCCS ed enti di ricerca. È “concorrenza sleale” contro tutti gli altri enti e istituti che invece devono (com’è giusto che sia) competere tra loro e con altri per conquistarsi le risorse necessarie. È pienamente nel dominio della politica scegliere di incentivare alcune aree socio-economiche da sviluppare e anche le materie su cui investire maggiormente, ma un polo scientifico andrebbe creato seguendo linee guida internazionali che assicurino la bontà e competitività dell’intervento. Si pensi alla gara promossa nel 2010 dall’allora sindaco di New York, Michael Bloomberg, per realizzare un nuovo polo di ricerca scientifica. Arrivarono una ventina di proposte, da 27 istituzioni di sei diversi Stati americani e otto paesi stranieri. A vincere, un anno dopo, fu il progetto presentato dalla cordata composta dalla statunitense Cornell University e dal politecnico israeliano Technion. Fantascienza per le politiche pubbliche della ricerca prevalenti in Italia.
Quasi vent’anni fa, nel 2003, con un’operazione simile al tecnopolo senese, nasceva a Genova, per decreto legge, l’Istituto italiano di tecnologia (IIT), fondazione di diritto privato destinataria di un finanziamento pubblico non competitivo inizialmente di 10 anni, ma reso perpetuo due soli anni dopo l’istituzione dell’ente, pari a circa 100 milioni all’anno. Promotore dell’iniziativa fu Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia del governo Berlusconi.
Le sorti dell’IIT – di cui sarebbe utile misurare la resa ventennale, a fronte di circa 1,7 miliardi investiti, in termini di trasferimento tecnologico, prodotti e attrazione dei privati – si incrociano, anni dopo, con quelle di un’altra fondazione di diritto privato interamente finanziata dal pubblico: lo Human Technopole (HT) di Milano. Era il 2016, ero in Senato da meno di tre anni, quando il governo presieduto da Matteo Renzi decise all’improvviso di costruire un nuovo centro di ricerca nell’area di Expo 2015. Il futuro HT, nel deserto di fondi che era allora la ricerca pubblica italiana, sarebbe stato dotato, a prescindere e per sempre, di 140 milioni di euro ogni anno; la sua realizzazione sarebbe stata affidata con decreto legge, senza alcuna competizione, proprio all’IIT, tra l’altro privo delle competenze specifiche necessarie nelle aree di ricerca di cui, senza alcuna analisi del bisogno e consultazione pubblica, si era deciso che il nuovo centro si dovesse occupare. Non esitai a denunciare pubblicamente, in Aula e sui giornali, le modalità arbitrarie e poco trasparenti con cui si voleva far passare una “operazione petalosa” per un “investimento in ricerca” e un progetto che non aveva vinto nessuna gara per il migliore da realizzare.
Per correggere quell’errore e assegnare allo Human Technopole di Milano una grande missione nazionale di apertura alla comunità scientifica del Paese sono serviti anni, lavoro, fatica, impegno costante da parte del Parlamento e dei tre ministeri vigilanti, a partire da un intervento legislativo e una Convenzione con cui dal 2021 si destina il 55% dei 140 milioni annui che HT riceve senza concorrenza, alla realizzazione di un sistema di piattaforme nazionali sulle scienze della vita. Le piattaforme, scelte a valle della consultazione pubblica ora in corso, saranno liberamente accessibili secondo regole condivise, con tanto di copertura dei costi, a tutti i ricercatori d’Italia.
Nel frattempo, nell’estate 2020, un emendamento al decreto Rilancio, a prima firma dell’attuale ministro per gli affari regionali Maria Stella Gelmini, ha introdotto un nuovo “Centro per l’innovazione e il trasferimento tecnologico in Lombardia”, all’interno dello stesso HT, autorizzando a tal fine un finanziamento aggiuntivo di 10 milioni di euro per il primo anno e di due milioni all’anno a decorrere da quello successivo. Eppure nella sola Lombardia sono già presenti ben due centri preposti a tale funzione (il Cluster Alisei e la Fondazione regionale ricerca biomedica), e i singoli enti di ricerca del territorio sono già dotati, al proprio interno, di un centro per il trasferimento tecnologico. E si potrebbe continuare con altri esempi di forze politiche di ogni schieramento che hanno ricercato o ricompensato il consenso elettorale con iniziative spot.
Usare la ricerca come merce di scambio è tanto più grave perché significa ignorare colpevolmente i reali bisogni della scienza in Italia e favorire le diseguaglianze tra studiosi, enti e territori. Un modo distorto di interpretare il processo democratico, di cui purtroppo, nel lungo termine, pagano le conseguenze non tanto i diretti responsabili, ma la ricerca, l’innovazione e tutto il Paese. Col paradosso per cui a lamentare la “fuga dei cervelli” sono spesso gli stessi che continuano a difendere ad ogni occasione il personale orticello politico e accademico, con casacche diverse, ma con la costante di rifuggire ogni programmazione, trasparenza e dibattito. Il silenzio di gran parte degli studiosi, di chi avrebbe il dovere – per ruolo e posizione- di tutelare la ricerca libera e competitiva segnala la completa rinuncia a difendere l’etica pubblica, destinata a soccombere al “così fan tutti”.
In questo contesto i fondi del PNRR e i bandi aperti e di prossima apertura sono una grande opportunità, ma anche un grande rischio qualora la spartizione preventiva delle risorse tra gli enti chiamati a competere finisse col prevalere sull’interesse pubblico. Dal 2026 l’Italia, e la ricerca, dovrà navigare in mare aperto senza i “booster” economici oggi disponibili. Per farci trovare pronti, bisogna essere disponibili a superare, una volta per tutte, quel particulare che per decenni ha arenato il Paese sulle secche della crescita zero.